Come previsto il mio contratto di
esperto in diritto internazionale doveva essersi incagliato in qualche scoglio
di uno di quei porti frastagliati che anche in Colombia si chiamano ministeri;
o forse il mio amico tintirillo si
aspettava altri centocinquanta dollari americani che io non avevo (e se li
avessi avuti non glieli avrei dati).
Insomma, scaduti i sei mesi del permesso
provvisorio che mi avevano dato al mio arrivo a Bogotà, dovetti lasciare la
Colombia.
Mi ero ripromesso di passare da Roma, tanto più che avevo un impegno da rispettare. Avevo promesso infatti di telefonare alla moglie di Silvio.
Roma mi è sempre piaciuta. A quel tempo
non era certo il suo fascino spirituale ad attirarmi. Lì avevo trascorso le mie
giornate di libera uscita, quando frequentavo la Scuola di Fanteria di Cesano.
C’era quindi un piccolo pezzo di me, di ciò che ero stato prima di partire per
Londra e poi per il Sudamerica; era un buon viatico per me, ricominciare da
Roma la ricerca di me stesso. Ricordo un episodio buffo, dopo essere sceso
dall’aereo, appena giunto in centro,
mentre mi spostavo con il bagaglio, alla ricerca del mezzo giusto da
prendere. Casualmente mi imbattei in un mio conterraneo. Come argutamente sottolinea
Dante nel suo Canto XXII, due Sardi che si incontrano, soprattutto fuori dalla
Sardegna, non sono mai sazi di parlare nella loro lingua. Soltanto che io mi
accorsi di mischiare il sardo al castigliano; riuscii ad esprimermi e a farmi
capire; ma dopo aver parlato per sei mesi la lingua ufficiale spagnola, mi
trovavo a confondere la mia lingua madre
con il castigliano.
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