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mercoledì 27 luglio 2022

Omicidio a Cagliari - 6

 

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Capitolo Sesto 

Il mercoledì successivo, mentre rientrava a casa dalla passeggiata nel Parco di Monte Urpinu, il commissario De Candia ricevette una telefonata.  La voce di Luisa, sempre calda e piacevole, gli comunicò di essere finalmente in possesso della chiave della cassaforte a muro della casa dell’omicidio, quella di quel ragazzo con il coltello insanguinato in mano.

 «Luisa, pensi che ci sia ancora la corrente elettrica in funzione?»

«Non lo so se qualcuno ha chiesto l’interruzione dell’energia elettrica. Io sono ancora a studio.»

«Allora rimandiamo a domani. Anche se io ho il rientro pomeridiano fino alle 18:00, ma a quell’ora c’è ancora luce e volendo potrei uscire anche un po’ prima.»

«Beh, io posso chiudere lo studio verso le 17:00 visto che non ho appuntamenti fissati dopo quell’ora.»

Si diedero appuntamento direttamente in via Giudicessa Adelasia per le 18:30, dopo i convenevoli di routine.

Santiago De Candia si chiese se un simile sopralluogo, effettuato con l’avvocato difensore dell’unico indiziato, fosse corretto da un punto di vista professionale. L’esame di procedura penale lo aveva sostenuto, all’università, parecchi anni prima e non ricordava, in quel momento, quale fosse l’esatto iter procedurale da rispettare. Considerò tra sé e sé che, per prima cosa, l’indiziato era stato comunque rimesso in libertà dal Tribunale. Poi, l’avvocato si era offerta di dare una mano per identificare il vero colpevole. E infine, per evitare complicazioni, non avrebbe mai fatto figurare ufficialmente quel


sopralluogo. ‘Quod non est in actis, non est in mundo’, avrebbe detto il suo valido collaboratore, l’ispettore Zuddas. Dopo tutto, in coscienza, lui sapeva di non compromettere le sue indagini. Anzi, l’aiuto dell’avvocato Levi sembrava costituire persino un valore aggiunto per la soluzione del caso.

Il commissario aveva ripensato molto alla giornata di domenica. Da quando era morta la moglie, più di cinque prima, non aveva avuto storie particolarmente coinvolgenti. Soltanto Luisa lo aveva in qualche modo conquistato. Non era soltanto un’attrazione fisica, anche se l’avvocato Levi aveva un corpo sodo accompagnato da una intelligenza vivace come piaceva a lui. In realtà quella donna esercitava su di lui un fascino indefinibile. Da un lato, materno con quella sua avvolgente sicurezza femminile e quel suo seno florido e prosperoso. Però, sentiva che quella professionista abile e caparbia fosse alla ricerca, come tante donne, di un punto di riferimento o di un centro di stabilità. La sua sicurezza e la sua grinta erano autentiche, solide e profonde ma, non di meno, egli intuiva che la sua femminilità avesse bisogno di un elemento di completamento che non sconfinasse e non collidesse con la rivalità professionale e il confronto quotidiano e continuo. D’altronde, non era forse uguale per gli uomini? Non cercavano anch’essi una figura femminile che li completasse, dando loro stabilità, protezione, affetto?

Sin da lunedì era stato  incerto se mandarle un mazzo di rose rosse, come soleva fare, seppure in occasione di ricorrenze, con sua moglie. Il suo sarebbe stato un gesto per manifestarle la sua ammirazione, il suo ringraziamento per la bella giornata trascorsa insieme. Un gesto per dichiarare apertamente la passione che provava per lei.

Poi aveva scelto  di non inviarle perché tra loro non c’era stata una vera e propria spiegazione in occasione del loro casuale incontro del sabato precedente. Anzi lui aveva capito che il silenzio di lei nei mesi precedenti era da attribuirsi, non tanto alla sua paura di innamorarsi, quanto piuttosto al timore che dall’innamoramento passionale si potesse passare a una relazione piatta e ordinaria, fatta di abitudine e routine.

Aveva deciso così di darle tutto il tempo di cui lei avesse avuto bisogno. Neanche lui, in fondo, era in cerca di una relazione standardizzata sull’ordinario, priva di emozioni e fatta di abitudini e convenzioni. Santiago si era, alla fine, adeguato a quella che sembrava essere la scelta di lei. Un rapporto senza vincoli, ricco di sincerità, ma anche di libertà. Amore e indipendenza e con una travolgente passione da vivere alla giornata.

 

Quando arrivò alla casa di via Giudicessa Adelasia lei era già lì che aspettava. Aveva ripreso le sue eleganti sembianze professionali, con il suo mezzo tacco nero, il tailleur sartoriale color amaranto, il suo preferito. I capelli raccolti in un elegante chignon e il trucco leggero, ma sapiente, donava ancora più luce ai suoi occhi e alla sua pelle.

Si salutarono affettuosamente, come due vecchi amici. Subito il commissario armeggiò con le chiavi che gli avevano dato in procura e che erano state sequestrate all’assistito dell’avvocato Levi, il presunto assassino con il coltello insanguinato in mano. Quando furono dentro casa l’avvocato provò le luci. La corrente c’era ancora, anche se non serviva. L’appartamento era luminoso e il sole illuminava ancora quella bella giornata di maggio. Il commissario sollevò le tapparelle del salottino della casa della vittima di quel brutale assassinio, ancora avvolto nel mistero, ancora senza un colpevole vero. Dalla finestra vide un volo di fenicotteri, come una squadra di aerei, sfilare verso la zona degli stagni.

L’avvocato aprì la borsetta e consegnò la chiave al commissario, che nel frattempo aveva staccato dalla parete il quadro che copriva la cassaforte a muro. 

Luisa gli stava di fianco e si sollevò sulla punta dei piedi per vedere meglio l’interno della piccola cassaforte. Ma non c’era niente. Il commissario passò la mano destra su entrambi i ripiani, per esserne ancora più certo. La cassaforte era davvero vuota.

I due si guardarono. La più incredula sembrava però proprio Luisa.

«Mi ha detto il mio assistito che oltre al testamento, la zia ci teneva dei buoni postali nominativi, diversi gioielli personali, alcuni documenti, tra cui la carta d’identità e il codice fiscale.»

«Senti, e la chiave della signora dove potrebbe essere? Ho visto delle chiavi nell’ingresso…»

«Vado a prenderle!» si offrì lei prontamente. «Anche se so che la chiave della cassaforte, la signora Emma, la teneva nel primo cassetto del comò, insieme alla carta del bancomat e a piccole somme in contanti.»

«Io vado a fare una ispezione più accurata rispetto a sabato scorso!» disse il commissario mentre lei andava a prendere le chiavi.

Quando tornò con diversi mazzi di chiavi, il commissario aveva svuotato quasi del tutto il primo cassetto, disponendo il contenuto che aveva estratto sul letto della povera vittima, più o meno nello stesso ordine in cui lo aveva trovato.

«Ecco tutte le chiavi appese nell’ingresso. La chiave della cassaforte non c’è.  Quindi deve essere per forza qui!»

Così dicendo si mise a esaminare ciò che Santiago aveva estratto dal cassetto.  Nel frattempo il commissario rovistò negli altri cassetti del comò.

«A meno che…» disse Luisa mano a mano che si rendeva conto che la sua cernita e quella del commissario non avrebbero sortito alcun risultato.

«A meno che non se la sia portata via l’assassino!» completò il commissario, anticipandola.

«Quello vero!» precisò l’avvocato. Nel suo viso, adesso, l’incredulità aveva lasciato il posto a una certa soddisfazione. Alla sua tesi stavano arrivando conferme, scagionando definitivamente, se ancora ce ne fosse stato bisogno, il suo assistito anche agli occhi del commissario

«Per scrupolo io cercherei meglio. Magari la chiave è stata riposta dalla stessa vittima in un altro posto…magari anche nella tasca di una vestaglia. Che ne dici di rovistare insieme tutto l’appartamento?»

«Dico che va bene! Ma chissà perché io penso che non troveremo niente!»

Dopo un’ora abbondante la loro ricerca certosina non aveva dato alcun esito. L’intuito dell’avvocato aveva visto giusto. Qualcuno aveva preso la chiave della cassaforte, portando via anche tutto il contenuto, oltre la carta del bancomat e i soldi. E questo qualcuno poteva essere soltanto il fantomatico assassino senza volto.

«Ma come avrà fatto?» chiese Luisa come interrogando se stessa. «C’erano i Carabinieri, qui, in casa. Possibile che l’assassino avesse già svuotato la cassaforte quando sono arrivati i Carabinieri? E se aveva già svuotato la cassaforte cosa faceva lì in cucina, dove è stato trovato il corpo della signora Emma?»

«Vieni, andiamo su in mansarda. Io un’idea ce l’avrei!» disse il commissario avviandosi verso la ripida scala in legno che portava in mansarda.

De Candia la precedette e appena in cima si voltò e le tese la mano per aiutarla a completare l’ultimo tratto di gradini. La mansarda era scarsamente arredata con un lettino, un comodino, una sedia, un armadio in legno e una scala a libretto, aperta sotto uno dei due lucernari, proprio come l’aveva lasciata lui dopo il sopralluogo precedente.

«Secondo me i fatti sono avvenuti in questo modo! L’assassino è stato scoperto dalla vittima mentre rovistava in cucina, tralasciamo per adesso che cosa cercasse in cucina e perché si trovasse proprio lì. La vittima si è messa a urlare, magari perché il ladro era a viso coperto, o magari perché si è semplicemente spaventata. Allora il ladro ha afferrato un coltello e l’ha uccisa per farla tacere. Poi, forse, si è spaventato. Ha pensato di fuggire dalla porta ma deve avere sentito il rumore del nipote che stava arrivando e così ha cercato di nascondersi qui, nel piccolo bagno per gli ospiti, di sotto. Oppure, più verosimilmente, ha pensato di fuggire dalla stessa via da cui era penetrato in casa. Anche questo dettaglio andrà chiarito. Mi segui nel mio ragionamento?» chiese il commissario all’avvocato che si era seduta su un lettino che stava proprio sotto uno dei due lucernari che davano luce e aria alla mansarda.

«Ti seguo. Vai avanti» rispose la donna, guardandosi in giro.

«Quando ha sentito il trambusto che sicuramente hanno fatto i Carabinieri, arrivando come minimo a sirene spiegate, deve essere salito qui in mansarda per guadagnare una via di fuga. Però qualcosa lo ha fermato. Forse si è acquattato qua fuori, in questo anfratto esterno, proprio a ridosso della finestra, vieni a vedere!»

Santiago, non senza difficoltà, a causa della sua robusta corporatura, si era affacciato fuori dal lucernario. Scese però con insospettata agilità dalla scaletta in legno per consentire all’avvocato di salire a sua volta. Luisa Levi annuì dopo essere ridiscesa, invitando il commissario a continuare.

«Be’, magari per non rischiare di essere visto, avrà aspettato in cima alla scaletta, pronto a squagliarsela se soltanto avesse sentito qualcuno salire su per le scale.»

«Ma i Carabinieri, convinti di aver preso il vero e unico assassino non hanno neppure pensato di salire quassù a controllare!» lo anticipò con convinzione l’avvocato che ormai aveva capito dove volesse andare a parare l’arguto commissario, dando a intendere che condivideva la sua ricostruzione.

«Esattamente!» esclamò lui, contento che la sua amica lo seguisse e fosse d’accordo con la sua ipotesi. «Quando finalmente si sono calmate le acque è ridisceso e ha finito l’operazione per cui probabilmente era venuto. Svaligiare la casa della vittima.»

«Un topo d’appartamento. Certamente un ladruncolo dotato di sangue freddo!» commentò Luisa riflettendo.

«Ancora non sappiamo con certezza se sia davvero entrato con l’idea di rubare o di fare altro…» disse in maniera sibillina il commissario.

«Al di là di questo, la tua ricostruzione mi sembra abbastanza plausibile» convenne Luisa. «Vieni, rimettiamo tutto a posto e andiamocene!»

Fecero a ritroso la strada verso il basso e, rimessa ogni cosa al proprio posto, uscirono.

Il sole, adesso, era sulla via del tramonto. Le rondini continuavano a garrire festose, mentre un’altra colonia di fenicotteri, più numerosi di prima, si dirigevano in direzione degli stagni di Molentargius. O forse ancora più in là, verso Quartu Sant’Elena.

«Che fai ora?»

«Vado a casa a farmi una bella doccia!» rispose il commissario senza pensare. «È da stamattina che sono in giro!»

«Perché non te la fai a casa mia la doccia?» disse con un sorriso malizioso Luisa Levi.

Al commissario passò di colpo la stanchezza che aveva accumulato in quella giornata piena di lavoro.

«Se non disturbo…» disse così, tanto per dire, e per nascondere l’emozione e la contentezza che quell’invito insperato gli avevano suscitato.

«E chi dovresti disturbare? Ti sei dimenticato che mio figlio è in gita scolastica, a Barcellona?»

«Bene. Accetto volentieri, allora.»

Quella sera, il commissario si fece una doccia memorabile, di quelle che rimangono scolpite nei ricordi. Finirono insieme sotto la doccia, come due adolescenti, a insaponarsi a vicenda, e a spruzzarsi l’acqua negli occhi. O più semplicemente come due amanti appassionati. Lui le baciò tutto il corpo, ancora bagnato, mentre l’acqua scendeva sopra di loro, come una pioggia benedetta, calda e confortevole.

Cenarono insieme e Santiago scoprì così che lei aveva già cucinato per entrambi.

A notte fonda il commissario si ritrovò per strada, talmente lieto e sereno, che decise di fare a piedi la strada per rientrare a casa. Gli sarebbe piaciuto fermarsi a dormire, ma si ricordò che si era ripromesso di non essere troppo invadente e di lasciare che il loro rapporto crescesse piano, piano. Poco per volta, alla giornata, come voleva lei. E come forse voleva anche lui.

Quando arrivò a casa era davvero stanco. Quella notte non riuscì a comporre le tessere del suo mosaico. Il sonno arrivò subito. Ma il commissario non fu dispiaciuto, anzi!

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