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Capitolo Sesto
Il
mercoledì successivo, mentre rientrava a casa dalla passeggiata nel Parco di
Monte Urpinu, il commissario De Candia ricevette una telefonata. La voce di Luisa, sempre calda e piacevole, gli
comunicò di essere finalmente in possesso della chiave della cassaforte a muro
della casa dell’omicidio, quella di quel ragazzo con il coltello insanguinato
in mano.
«Luisa, pensi che ci sia ancora la corrente
elettrica in funzione?»
«Non
lo so se qualcuno ha chiesto l’interruzione dell’energia elettrica. Io sono
ancora a studio.»
«Allora
rimandiamo a domani. Anche se io ho il rientro pomeridiano fino alle 18:00, ma
a quell’ora c’è ancora luce e volendo potrei uscire anche un po’ prima.»
«Beh,
io posso chiudere lo studio verso le 17:00 visto che non ho appuntamenti
fissati dopo quell’ora.»
Si
diedero appuntamento direttamente in via Giudicessa Adelasia per le 18:30, dopo
i convenevoli di routine.
Santiago De Candia si chiese se un simile sopralluogo, effettuato con l’avvocato difensore dell’unico indiziato, fosse corretto da un punto di vista professionale. L’esame di procedura penale lo aveva sostenuto, all’università, parecchi anni prima e non ricordava, in quel momento, quale fosse l’esatto iter procedurale da rispettare. Considerò tra sé e sé che, per prima cosa, l’indiziato era stato comunque rimesso in libertà dal Tribunale. Poi, l’avvocato si era offerta di dare una mano per identificare il vero colpevole. E infine, per evitare complicazioni, non avrebbe mai fatto figurare ufficialmente quel
sopralluogo. ‘Quod non est in actis, non est in mundo’, avrebbe detto il suo valido collaboratore, l’ispettore Zuddas. Dopo tutto, in coscienza, lui sapeva di non compromettere le sue indagini. Anzi, l’aiuto dell’avvocato Levi sembrava costituire persino un valore aggiunto per la soluzione del caso.
Il
commissario aveva ripensato molto alla giornata di domenica. Da quando era
morta la moglie, più di cinque prima, non aveva avuto storie particolarmente
coinvolgenti. Soltanto Luisa lo aveva in qualche modo conquistato. Non era
soltanto un’attrazione fisica, anche se l’avvocato Levi aveva un corpo sodo
accompagnato da una intelligenza vivace come piaceva a lui. In realtà quella
donna esercitava su di lui un fascino indefinibile. Da un lato, materno con
quella sua avvolgente sicurezza femminile e quel suo seno florido e prosperoso.
Però, sentiva che quella professionista abile e caparbia fosse alla ricerca,
come tante donne, di un punto di riferimento o di un centro di stabilità. La
sua sicurezza e la sua grinta erano autentiche, solide e profonde ma, non di
meno, egli intuiva che la sua femminilità avesse bisogno di un elemento di
completamento che non sconfinasse e non collidesse con la rivalità
professionale e il confronto quotidiano e continuo. D’altronde, non era forse
uguale per gli uomini? Non cercavano anch’essi una figura femminile che li
completasse, dando loro stabilità, protezione, affetto?
Sin
da lunedì era stato incerto se mandarle
un mazzo di rose rosse, come soleva fare, seppure in occasione di ricorrenze,
con sua moglie. Il suo sarebbe stato un gesto per manifestarle la sua
ammirazione, il suo ringraziamento per la bella giornata trascorsa insieme. Un
gesto per dichiarare apertamente la passione che provava per lei.
Poi
aveva scelto di non inviarle perché tra
loro non c’era stata una vera e propria spiegazione in occasione del loro
casuale incontro del sabato precedente. Anzi lui aveva capito che il silenzio
di lei nei mesi precedenti era da attribuirsi, non tanto alla sua paura di
innamorarsi, quanto piuttosto al timore che dall’innamoramento passionale si
potesse passare a una relazione piatta e ordinaria, fatta di abitudine e
routine.
Aveva
deciso così di darle tutto il tempo di cui lei avesse avuto bisogno. Neanche
lui, in fondo, era in cerca di una relazione standardizzata sull’ordinario,
priva di emozioni e fatta di abitudini e convenzioni. Santiago si era, alla
fine, adeguato a quella che sembrava essere la scelta di lei. Un rapporto senza
vincoli, ricco di sincerità, ma anche di libertà. Amore e indipendenza e con
una travolgente passione da vivere alla giornata.
Quando
arrivò alla casa di via Giudicessa Adelasia lei era già lì che aspettava. Aveva
ripreso le sue eleganti sembianze professionali, con il suo mezzo tacco nero,
il tailleur sartoriale color amaranto, il suo preferito. I capelli raccolti in
un elegante chignon e il trucco leggero, ma sapiente, donava ancora più luce ai
suoi occhi e alla sua pelle.
Si
salutarono affettuosamente, come due vecchi amici. Subito il commissario
armeggiò con le chiavi che gli avevano dato in procura e che erano state
sequestrate all’assistito dell’avvocato Levi, il presunto assassino con il
coltello insanguinato in mano. Quando furono dentro casa l’avvocato provò le luci.
La corrente c’era ancora, anche se non serviva. L’appartamento era luminoso e
il sole illuminava ancora quella bella giornata di maggio. Il commissario
sollevò le tapparelle del salottino della casa della vittima di quel brutale
assassinio, ancora avvolto nel mistero, ancora senza un colpevole vero. Dalla
finestra vide un volo di fenicotteri, come una squadra di aerei, sfilare verso
la zona degli stagni.
L’avvocato
aprì la borsetta e consegnò la chiave al commissario, che nel frattempo aveva staccato
dalla parete il quadro che copriva la cassaforte a muro.
Luisa
gli stava di fianco e si sollevò sulla punta dei piedi per vedere meglio
l’interno della piccola cassaforte. Ma non c’era niente. Il commissario passò
la mano destra su entrambi i ripiani, per esserne ancora più certo. La
cassaforte era davvero vuota.
I
due si guardarono. La più incredula sembrava però proprio Luisa.
«Mi
ha detto il mio assistito che oltre al testamento, la zia ci teneva dei buoni
postali nominativi, diversi gioielli personali, alcuni documenti, tra cui la
carta d’identità e il codice fiscale.»
«Senti,
e la chiave della signora dove potrebbe essere? Ho visto delle chiavi
nell’ingresso…»
«Vado
a prenderle!» si offrì lei prontamente. «Anche
se so che la chiave della cassaforte, la signora Emma, la teneva nel primo
cassetto del comò, insieme alla carta del bancomat e a piccole somme in
contanti.»
«Io
vado a fare una ispezione più accurata rispetto a sabato scorso!»
disse il commissario mentre lei andava a prendere le chiavi.
Quando
tornò con diversi mazzi di chiavi, il commissario aveva svuotato quasi del
tutto il primo cassetto, disponendo il contenuto che aveva estratto sul letto
della povera vittima, più o meno nello stesso ordine in cui lo aveva trovato.
«Ecco
tutte le chiavi appese nell’ingresso. La chiave della cassaforte non c’è. Quindi deve essere per forza qui!»
Così
dicendo si mise a esaminare ciò che Santiago aveva estratto dal cassetto. Nel frattempo il commissario rovistò negli
altri cassetti del comò.
«A
meno che…» disse Luisa mano a mano che si rendeva
conto che la sua cernita e quella del commissario non avrebbero sortito alcun
risultato.
«A
meno che non se la sia portata via l’assassino!»
completò il commissario, anticipandola.
«Quello
vero!»
precisò l’avvocato. Nel suo viso, adesso, l’incredulità aveva lasciato il posto
a una certa soddisfazione. Alla sua tesi stavano arrivando conferme,
scagionando definitivamente, se ancora ce ne fosse stato bisogno, il suo
assistito anche agli occhi del commissario
«Per
scrupolo io cercherei meglio. Magari la chiave è stata riposta dalla stessa
vittima in un altro posto…magari anche nella tasca di una vestaglia. Che ne
dici di rovistare insieme tutto l’appartamento?»
«Dico
che va bene! Ma chissà perché io penso che non troveremo niente!»
Dopo
un’ora abbondante la loro ricerca certosina non aveva dato alcun esito.
L’intuito dell’avvocato aveva visto giusto. Qualcuno aveva preso la chiave
della cassaforte, portando via anche tutto il contenuto, oltre la carta del
bancomat e i soldi. E questo qualcuno poteva essere soltanto il fantomatico
assassino senza volto.
«Ma
come avrà fatto?» chiese Luisa come
interrogando se stessa. «C’erano i Carabinieri,
qui, in casa. Possibile che l’assassino avesse già svuotato la cassaforte quando
sono arrivati i Carabinieri? E se aveva già svuotato la cassaforte cosa faceva
lì in cucina, dove è stato trovato il corpo della signora Emma?»
«Vieni,
andiamo su in mansarda. Io un’idea ce l’avrei!»
disse il commissario avviandosi verso la ripida scala in legno che portava in
mansarda.
De
Candia la precedette e appena in cima si voltò e le tese la mano per aiutarla a
completare l’ultimo tratto di gradini. La mansarda era scarsamente arredata con
un lettino, un comodino, una sedia, un armadio in legno e una scala a libretto,
aperta sotto uno dei due lucernari, proprio come l’aveva lasciata lui dopo il
sopralluogo precedente.
«Secondo
me i fatti sono avvenuti in questo modo! L’assassino è stato scoperto dalla
vittima mentre rovistava in cucina, tralasciamo per adesso che cosa cercasse in
cucina e perché si trovasse proprio lì. La vittima si è messa a urlare, magari
perché il ladro era a viso coperto, o magari perché si è semplicemente
spaventata. Allora il ladro ha afferrato un coltello e l’ha uccisa per farla
tacere. Poi, forse, si è spaventato. Ha pensato di fuggire dalla porta ma deve
avere sentito il rumore del nipote che stava arrivando e così ha cercato di
nascondersi qui, nel piccolo bagno per gli ospiti, di sotto. Oppure, più
verosimilmente, ha pensato di fuggire dalla stessa via da cui era penetrato in
casa. Anche questo dettaglio andrà chiarito. Mi segui nel mio ragionamento?»
chiese il commissario all’avvocato che si era seduta su un lettino che stava
proprio sotto uno dei due lucernari che davano luce e aria alla mansarda.
«Ti
seguo. Vai avanti» rispose la donna,
guardandosi in giro.
«Quando
ha sentito il trambusto che sicuramente hanno fatto i Carabinieri, arrivando
come minimo a sirene spiegate, deve essere salito qui in mansarda per guadagnare
una via di fuga. Però qualcosa lo ha fermato. Forse si è acquattato qua fuori,
in questo anfratto esterno, proprio a ridosso della finestra, vieni a vedere!»
Santiago,
non senza difficoltà, a causa della sua robusta corporatura, si era affacciato
fuori dal lucernario. Scese però con insospettata agilità dalla scaletta in
legno per consentire all’avvocato di salire a sua volta. Luisa Levi annuì dopo
essere ridiscesa, invitando il commissario a continuare.
«Be’,
magari per non rischiare di essere visto, avrà aspettato in cima alla scaletta,
pronto a squagliarsela se soltanto avesse sentito qualcuno salire su per le
scale.»
«Ma
i Carabinieri, convinti di aver preso il vero e unico assassino non hanno
neppure pensato di salire quassù a controllare!»
lo anticipò con convinzione l’avvocato che ormai aveva capito dove volesse
andare a parare l’arguto commissario, dando a intendere che condivideva la sua
ricostruzione.
«Esattamente!»
esclamò lui, contento che la sua amica lo seguisse e fosse d’accordo con la sua
ipotesi. «Quando finalmente si sono calmate le acque
è ridisceso e ha finito l’operazione per cui probabilmente era venuto.
Svaligiare la casa della vittima.»
«Un
topo d’appartamento. Certamente un ladruncolo dotato di sangue freddo!»
commentò Luisa riflettendo.
«Ancora
non sappiamo con certezza se sia davvero entrato con l’idea di rubare o di fare
altro…»
disse in maniera sibillina il commissario.
«Al
di là di questo, la tua ricostruzione mi
sembra abbastanza plausibile» convenne Luisa. «Vieni,
rimettiamo tutto a posto e andiamocene!»
Fecero
a ritroso la strada verso il basso e, rimessa ogni cosa al proprio posto,
uscirono.
Il
sole, adesso, era sulla via del tramonto. Le rondini continuavano a garrire
festose, mentre un’altra colonia di fenicotteri, più numerosi di prima, si dirigevano
in direzione degli stagni di Molentargius. O forse ancora più in là, verso
Quartu Sant’Elena.
«Che
fai ora?»
«Vado
a casa a farmi una bella doccia!»
rispose il commissario senza pensare. «È da stamattina che sono in giro!»
«Perché
non te la fai a casa mia la doccia?»
disse con un sorriso malizioso Luisa Levi.
Al
commissario passò di colpo la stanchezza che aveva accumulato in quella
giornata piena di lavoro.
«Se non disturbo…»
disse così, tanto per dire, e per nascondere l’emozione e la contentezza che
quell’invito insperato gli avevano suscitato.
«E chi dovresti
disturbare? Ti sei dimenticato che mio figlio è in gita scolastica, a
Barcellona?»
«Bene. Accetto volentieri,
allora.»
Quella sera, il commissario si fece una
doccia memorabile, di quelle che rimangono scolpite nei ricordi. Finirono
insieme sotto la doccia, come due adolescenti, a insaponarsi a vicenda, e a
spruzzarsi l’acqua negli occhi. O più semplicemente come due amanti
appassionati. Lui le baciò tutto il corpo, ancora bagnato, mentre l’acqua
scendeva sopra di loro, come una pioggia benedetta, calda e confortevole.
Cenarono insieme e Santiago scoprì così
che lei aveva già cucinato per entrambi.
A notte fonda il commissario si ritrovò
per strada, talmente lieto e sereno, che decise di fare a piedi la strada per
rientrare a casa. Gli sarebbe piaciuto fermarsi a dormire, ma si ricordò che si
era ripromesso di non essere troppo invadente e di lasciare che il loro
rapporto crescesse piano, piano. Poco per volta, alla giornata, come voleva lei.
E come forse voleva anche lui.
Quando arrivò a casa era
davvero stanco. Quella notte non riuscì a comporre le tessere del suo mosaico.
Il sonno arrivò subito. Ma il commissario non fu dispiaciuto, anzi!
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