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Capitolo Secondo
Il lunedì successivo era
festa nazionale, ma sui giornali la vicenda dell’assassinio con il coltello in
mano aveva continuato a spiccare tra i titoli in evidenza. Continuava a
suscitare clamore e interesse una vicenda che aveva visto soccombere una
signora anziana per mano di un suo giovane nipote. Tra i lettori dell’Opinione,
soprattutto, si contavano numerose le persone anziane assistite da parenti più
giovani oppure da personale esterno. A tenere viva la notizia era stata
l’emittente Selen TV, che faceva da traino alla versione cartacea del
quotidiano, con numerosi e frequenti dibattiti televisivi, ai quali venivano
invitati cittadini comuni ed esperti di varia provenienza.
Anche il secondo lunedì del mese il fattaccio del
coltello insanguinato teneva banco. Il commissario De Candia trovò il bar di
Tonio ancora in grande subbuglio.
«Ha
visto dottore le ultime sul caso dell’assassino con il coltello in mano?» gli
disse Tonio accennando al giornale che aveva appena aperto, mentre gli portava
la colazione, calda e fumante.
Il commissario andò a leggere le pagine interne della
cronaca e a momenti gli andava di traverso il boccone di croissant che aveva
appena addentato.
Una foto dell’avvocato Levi capeggiava a centro
pagina.
La notizia eclatante era che l’assassino con il
coltello in mano era stato scarcerato dal Tribunale della Libertà del
capoluogo, su ricorso dell’avv. Luisa Levi.
La donna era una vecchia
conoscenza del commissario, vedovo da tempo, che l’aveva incrociata all’inizio
per motivi professionali, in occasione di altre indagini per casi di omicidio.
Le loro opposte posizioni
investigative, lui dalla parte del delegato per le indagini della procura, lei
come avvocato difensore dell’indagato, non avevano impedito la nascita di una reciproca stima, dalla quale era poi
scaturita una discreta relazione alla quale nessuno dei due aveva voluto
attribuire un nome, ma che sembrava incardinarsi in qualcosa di più di una
sequela, apparentemente occasionale ed episodica, di incontri connotati da una
forte e reciproca passionalità.
Poi quel flusso empatico
si era bruscamente interrotto. Senza una ragione apparente, gli era sembrato
che lei non volesse più farsi trovare. O forse era stato lui che non l’aveva
cercata abbastanza.
Qualcosa era però rimasto
in sospeso, inespresso, involuto, almeno nell’animo del commissario. Quel
qualcosa che, assopito e sotto traccia, si era risvegliato all’improvviso, di
fronte a quella fotografia sul giornale.
Quella donna era davvero
un diavolo in gonnella, pensò il commissario.
Come aveva fatto ad
ottenere la scarcerazione dell’assassino con il coltello insanguinato in mano?
Gli avventori del bar di
Tonio sembravano scatenati.
«Com’era
possibile? »
«Ma
dove arriveremo, se si liberavano perfino gli assassini colti in flagranza di
reato?
»
«Possibile
che la giustizia abbia reso le armi di fronte alla delinquenza? »
«L’Italia
è ormai un paese senza speranza.»
Il commissario uscì dal
bar con un senso di liberazione. Un altro po’ e ci sarebbe stata, ne era
certo, l’immancabile invocazione all’Uomo
Forte. Il Risolutore, un uomo soltanto al comando, capace di raddrizzare le
storture di una democrazia fasulla e, magari, di fare arrivare i treni in
orario!
Ma la vera sorpresa
arrivò a mezzogiorno, quando l’ispettore Zuddas e il sovrintendente Farci, i
due più stretti collaboratori di Santiago De Candia nella squadra omicidi della
questura di Cagliari, fecero capolino
nel suo ufficio con un fax della procura!
«Appena
giunto via fax dalla procura generale, commissario!»
disse trafelato l’ispettore Zuddas, allungando un foglio di carta lucida.
«Che
cos’è?»
chiese il commissario prendendo il foglio ma guardando i suoi collaboratori in
segno di saluto.
«È
una convocazione per il conferimento della delega alle indagini per l’omicidio
di via Giudicessa Adelasia!»
«O
dell’assassino con il coltello in mano che dir si voglia!»
intervenne il sovrintendente Farci in tono polemico.
«Caspita!
Niente di meno!» esclamò Santiago De
Candia, che tutto s’aspettava quella mattina, meno che l’arrivo di quella
convocazione.
«Come
al solito, dopo la gloria farlocca e i pasticci grandiosi, a chi spetta
rimediare?» insisté il sovrintendente Farci, che ce
l’aveva sempre con i colleghi della giudiziaria che lui chiamava di-
spregiativamente gli scalda sedie del Palazzo.
«Beh,
consolati pensando che evidentemente, lassù in procura, ci devono apprezzare
parecchio!» disse sornione il commissario, che
conosceva il carattere pessimista del suo valido collaboratore.
«Vabbè,
se vogliamo dire per forza che il bicchiere è mezzo pieno…»
concesse con scarsa convinzione il sovrintendente, che apprezzava tanto il suo
superiore, quanto denigrava quelli del Palazzo. Tanto più se appartenenti ai
rivali Carabinieri.
«Ad
poenitendum properat, cito qui iudicat!»
sentenziò pronto l’ispettore Zuddas, che aveva un vasto repertorio di massime
latine, retaggio dei suoi studi classici, precocemente interrotti.
«Mio
nonno diceva sempre che la gatta frettolosa fece i gattini ciechi!»
disse il Santiago De Candia, che si divertiva un mondo per la reazione che
suscitavano queste massime latine nel sovrintendente, che le detestava
apertamente. Nondimeno cercava sempre, più che di tradurle, di trasmettere al
sovrintendente il senso di quello che Zuddas intendesse dire, affinché Farci
non si sentisse del tutto escluso.
Ma in realtà era un gioco delle parti, frutto della
loro ordinaria interazione, quasi come due innamorati in cerca di un pretesto
per litigare e potere poi fare pace.
«Ma
perché non parli come mangi?» protestò infatti il
sovrintendente Farci all’indirizzo del collega.
«Sarà
meglio che vada subito in procura!»
disse il commissario alzandosi, dopo aver dato uno sguardo al fax e averlo
riposto in una cartella intestata alla sezione omicidi.
«Viene con noi al bar per un aperitivo,
commissario?» chiese l’ispettore Zuddas.
«No grazie. Un’altra volta magari. Non
vorrei che il procuratore, nel frattempo, lasciasse l’ufficio!»
«Di sicuro non andrà a farsi intervistare!»
disse il sovrintendente Farci, riferendosi al fatto che il procuratore capo si
faceva intervistare soltanto per annunciare la risoluzione di casi giudiziari
di vasta eco mediatica che spesso, però, finivano nelle loro mani per una più
attenta risoluzione investigativa.
Santiago De Candia
interpose un sorriso di intesa e si avviò verso l’uscita.
«Et cave canem!»
gli gridò dietro l’ispettore, prendendo a braccetto il collega per guidarlo
verso il bar.
Il commissario si voltò e li salutò con un cenno della
mano.
Come ogni giorno a Cagliari, dopo mezzogiorno, si era
levata una brezza leggera dal mare. De Candia si coprì la bocca con la sua
immancabile sciarpa rossa. Di seta
leggera o di lana pesante, se ne privava
soltanto per andare al mare o quando indossava la tuta da ginnastica. Si
sistemò i baffi e i capelli, già spruzzati di grigio ma entrambi ancora folti e
si diresse con passo deciso in direzione del Palazzo di giustizia.
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