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Capitolo
primo
Come ogni mattina, anche
quel lunedì, il commissario Santiago De Candia fece una breve sosta all’edicola
di Largo Gennari, che da casa sua, in via Monteverdi, lo conduceva in Questura.
Checco gli allungò subito
i due soliti quotidiani, piegati in due. La Stampa e L’Opinione.
Come tanti cagliaritani,
Checco chiamava il quotidiano cittadino ‘l’Opignone’. Il commissario,
nonostante fosse nato in Sardegna, non aveva ancora capito se si trattasse di
un difetto di pronuncia oppure di un vezzo.
La seconda sosta, più
lunga, era quella al Bar di Tonio, il Caffè Intilimani, come recitava
l’insegna. Era stato coniato un unico vocabolo composto dal nome di un famoso
gruppo musicale cileno degli anni ’70 da cui, verosimilmente, il fondatore del
locale aveva preso ispirazione.
Il commissario De Candia
salutò con un cenno il barista. Era sufficiente. Il barista sarebbe subito
arrivato con la sua colazione. Ci teneva a servirlo personalmente.
Seduto al solito
tavolino, in fondo al locale, mentre aspettava il suo cappuccino e il suo
croissant alla crema, aveva aperto l’Opinione. A prescindere dal nome, il
quotidiano regionale si faceva apprezzare soltanto per la cronaca. Per le altre
notizie, lui preferiva la Stampa di
Torino, sulla quale si era orientato dopo tanti anni passati a formarsi su La
Repubblica.
«Ha
letto dell’assassino preso con il coltello in mano?»
gli disse Tonio poggiando il vassoio. «I miei clienti non parlano d’altro
oggi!» riprese con un tono di rassegnazione di chi non si aspettasse alcuna risposta.
Il commissario De Candia
non amava molto le chiacchiere. Dopo anni che frequentava il suo bar, Tonio
aveva imparato a rispettare la
riservatezza di quell’uomo che comunicava l’essenziale con gli occhi e
che evitava ogni parola superflua.
L’articolo di spalla
rimandava la notizia alle pagine interne della cronaca dove ampio spazio era
dedicato all’assassino con il coltello in mano, come il giornale aveva definito
l’omicidio che il barista gli aveva segnalato.
C’era una foto della
vittima. Una certa Emma Pirastu, di anni ottantaquattro. Una bella signora,
osservò De Candia. Distinta, dal viso intelligente, forse un’insegnante in
pensione oppure un’impiegata.
Era stata uccisa, in un
quartiere residenziale di Cagliari, dal nipote, un quasi trentenne, di cui si
riportavano soltanto le iniziali.
L’assassino era stato
colto in flagranza di reato con il coltello ancora in mano, grondante del
sangue della zia, che giaceva esanime ai suoi piedi in cucina. I Carabinieri
della Polizia Giudiziaria, coordinati dal procuratore capo Bartolomeo Gessa,
intervenuti prontamente sul posto dietro segnalazione di una dirimpettaia,
allarmata dalle urla disumane della povera vittima, avevano
risolto a tempo di record il caso, assicurando l’assassino alla giustizia, commentava la capo redattrice
della cronaca nera, Maria Carla Coseno.
Il commissario si sentì
prudere il naso. Aveva sempre sentito dire che il prurito al naso poteva
significare due cose alternativamente, soldi in arrivo oppure colpi. Ma il suo
era un naso da sbirro e spesso gli prudeva quando leggeva qualcosa che non
quadrasse. Oppure quando stava per imbattersi in qualcosa di importante e di
risolutivo. Gli succedeva talmente spesso che ormai non ci faceva quasi più
caso. In quell’occasione poteva perfino trattarsi di un po’ di zucchero a velo,
finito dal croissant sul suo naso. Ci strofinò sopra un tovagliolo, mentre si
detergeva le labbra da eventuali segni della colazione e si alzò in piedi.
Mentre pagava alla cassa
colse distintamente alcuni commenti dei clienti di Tonio.
«Ma
cosa aspettano a reintrodurre la pena di morte?»
Ancora senza vedere in
viso chi parlasse, udì i commenti che seguirono.
«Magari!
Invece lo dovremo mantenere per chissà quanti anni in carcere, servito e
riverito!»
«Non ti preoccupare! Con un bravo avvocato,
nel giro di cinque, massimo sette anni, sarà già fuori pronto ad ammazzare
qualcun altro!» disse una terza voce.
«Non esageriamo! L’hanno
preso con il coltello in mano! Non so se realizzi?»
replicò la prima voce.
«È come se l’avessero preso con la Colt
fumante!»
esclamò la seconda voce.
«Sapete cosa vi dico? Un
bravo avvocato sarebbe perfino capace di farlo assolvere!»
disse la terza voce che non sembrava volere retrocedere. Anzi, intendeva
spingersi ancora più avanti nella sua tesi.
«Boom! Mo’
gli danno pure una medaglia a ‘st’assassino con il coltello in mano!»
esplose una quarta voce che forse apparteneva a un romano, o a un forestiero.
Grato che nessuno gli
avesse chiesto un parere, il commissario, dopo aver pagato, uscì e si accese
una sigaretta.
Non c’era niente di più
stressante che un processo sommario, fatto fuori dalle aule di un tribunale,
pensò il commissario avviandosi verso la sede della Questura. Come certi
programmi televisivi che andavano di moda, infarciti di sedicenti esperti e
improvvisati criminologi, dove si ricostruivano i processi più eclatanti e
recenti che, a prescindere dalla loro evidente e oggettiva complessità, non
sembravano trattenere il pubblico da giudizi tanto sommari e superficiali,
quanto azzardati e fuori luogo.
Neanche il tempo di
finire la sigaretta ed era arrivato in Questura. L’edificio che la ospitava si
trovava proprio dietro il Palazzo di Giustizia, come se i tecnici del Piano
Urbanistico avessero voluto farne un presidio di protezione e retroguardia.
Il commissario spense la
sigaretta sotto la scarpa prima di imboccare la scalinata in travertino che
portava all’interno della Questura.
Il piantone lo accolse
accennando un saluto militare.
Il suo ufficio era al
primo piano, e le ampie finestre si affacciavano proprio su uno degli ingressi
secondari del Palazzo di Giustizia. Sulla sinistra era visibile anche
l’ingresso delle ex scuole magistrali, che adesso ospitavano il liceo
socio-pedagogico, o qualcosa del genere.
Ripose, come al
solito, i giornali in un cassetto della
scrivania e si accomodò nella sua poltrona.
Ma sei nuovi fascicoli
con altrettanti casi di omicidio, recenti e ancora da risolvere, lo aspettavano
all’interno dell’armadio di sicurezza. Li prelevò e li ripose sul ripiano della
scrivania. I due fratelli trovati morti nelle campagne di Settimo San Pietro.
La prostituta strangolata sul litorale di Giorgino. Un corpo privo di arti e
mutilato dalla voracità dei pesci restituito dal mare. Il matricidio,
probabilmente per colpa di un tossico esasperato dall’astinenza e dalla mancanza
di soldi per acquistare la dose, il quale però si era dileguato chissà dove. Due
ennesimi femminicidi, presumibilmente già chiusi. Uno con il suicidio del
marito colpevole, l’altro con la costituzione dell’autore che si era
autoaccusato dell’omicidio.
Nella consueta riunione
settimanale del venerdì si era deciso con i suoi collaboratori, l’ispettore Zuddas e il sovrintendente Farci,
di cominciare a svolgere delle indagini raccogliendo a verbale delle
informazioni e altre possibili prove, per ricomporre le vicende criminose in un
quadro investigativo coerente e comprensibile.
Prima del vertice con il
Questore, a cui partecipavano tutti i capi sezione, che si teneva a fine
mattinata ogni ultimo lunedì del mese, aveva a disposizione un po’ di tempo per
riprendere in mano tutti e sei i fascicoli ‘caldi’. Li definivano in questo
modo, per distinguerli da quelli che ormai avevano superato i sei mesi che la
legge assegnava agli inquirenti per svolgere le indagini. Il termine era
prorogabile per altri sei mesi. Dopo, il fascicolo ‘si raffreddava’, e
inevitabilmente finiva in una sorta di limbo, con buona pace della sete di
giustizia delle povere vittime e anche dei colpevoli.
Munito di fogli
protocollo a righe prendeva appunti, per ogni fascicolo, che costituivano allo
stesso tempo punto di partenza e
approdo, tra un venerdì e l’altro, dello stato di svolgimento delle indagini.
Strada facendo, i faldoni si sarebbero arricchiti, non solo delle sue
riflessioni, ma degli apporti delle indagini svolte sul campo dai suoi due più
stretti collaboratori.
Tutto ciò, naturalmente,
se non ci fossero state interruzioni e contrattempi.
Dopo il vertice con il
questore e gli altri capi sezione prese la via del ritorno. Restava in sede di
pomeriggio soltanto il martedì e il giovedì, quando aveva il cosiddetto
‘rientro’.
A fine pasto, quando lo
consumava in casa, era solito fare una siesta. Al risveglio, come ogni lunedì, si sarebbe recato a Iglesias, a Casa
Elvira, dove sua mamma aveva scelto di trascorrere la vecchiaia.
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