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domenica 29 gennaio 2023

La Terza via - 16

 

https://www.edizioniefesto.it/collane/origo-gentis/437-la-terza-via-un-uomo-un-viaggio-tre-strade

Questi ragazzi connazionali si occupavano invece del settore artigianale relativo alla panificazione e alla cottura delle pizze. Si iniziava con preparare l’impasto, versando in una impastatrice le quantità previste di farina, sale, acqua  e lievito. Quando l’impasto era pronto,  si provvedeva a ricavarne le forme circolari, decisamente di diametro inferiore al formato delle classiche pizze che in Italia vengono servite nei ristoranti e più tardi confezionate dalle grandi case del settore alimentare.

 Le forme venivano poste nelle grandi teglie di metallo che altro non erano se non i ripiani dei carrelli che successivamente andavano inseriti nei forni per la cottura. Ogni carrello aveva una decina di ripiani, ciascuno dei quali conteneva una dozzina di pizze. Una volta ottenuta la cottura,  le pizze erano pronte per essere trasferite, spingendo a braccia i carrelli sino al settore dove iniziava la preparazione che ho già descritto, con l’avvio del nastro trasportatore gestito dai colleghi egiziani.

Io venni aggregato al settore panificazione dove imparai presto le varie fasi della lavorazione. Il mio istruttore fu un ragazzo ligure, garbato e calmo,  che si chiamava Giampiero (di cui ho già avuto modo di parlare).

 Fu lui che mi indicò cosa e come fare, ma lo fece con gentilezza e senza mostrarsi saccente o supponente,  come spesso accade nei luoghi di lavoro nei confronti dei nuovi arrivati.

Fra gli  altri italiani che ricordo, oltre a Donato e Giampiero,  ricordo anche Natale, un veneto che aveva due grandi amori: le moto e l’hashish; non saprei dire quale delle due passioni gli costò la vita, forse furono entrambe; morì infatti in sella alla sua moto, qualche tempo dopo, in seguito a un incidente stradale di cui non seppi mai l’esatta dinamica. C’era poi Arturo, un ventottenne alquanto originale, forse emiliano o romagnolo. Ricordo che portava  un orecchino pendente  all’orecchio  sinistro,  che quasi gli aveva staccato il lobo, capelli lunghi  e  denti gialli e piccoli, corrotti sicuramente dal fumo delle sigarette che fumava in continuazione. Aveva sul viso una perenne espressione di estasi che,  con qualche malevolenza,  si sarebbe anche potuta descrivere ebete o assente; non di meno, egli svolgeva il suo lavoro con efficienza, seppure assorto in quella sua aria di eterno estraniamento che interrompeva soltanto per gridare «trolley!», con cui invitava qualcuno a ritirare i carrelli con le pizze appena sfornate, indicando al contempo che necessitava di un altro carrello vuoto; oppure gridava «enough!», quando i trolley vuoti erano diventati troppo numerosi davanti al forno. Dopo gli si ristampava in viso quel sorriso estatico che i miei compagni di lavoro, senza che io li sollecitassi, mi dissero fosse da attribuire ai suoi abusi di sostanze stupefacenti varie e non meglio identificate.

Altri ragazzi andavano e venivano; gente di passaggio; studenti in cerca di un lavoro provvisorio; quasi nessun inglese, molti italiani. Giampiero era una specie di capo, forse supervisor o assistant menager, non saprei dire; ma non faceva pesare il suo grado ed era sempre gentile con tutti, pur se pretendeva la massima efficienza.

Il lavoro in sé era abbastanza impegnativo. A me pesavano soprattutto due cose: alzarmi presto al mattino e rinunciare al riposo pomeridiano. Ma per il resto il lavoro non era male.

E durante  l’week end, in linea con la migliore tradizione britannica, non si lavorava.

 

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