https://www.edizioniefesto.it/collane/origo-gentis/437-la-terza-via-un-uomo-un-viaggio-tre-strade
Questi
ragazzi connazionali si occupavano invece del settore artigianale relativo alla
panificazione e alla cottura delle pizze. Si iniziava con preparare l’impasto,
versando in una impastatrice le quantità previste di farina, sale, acqua e lievito. Quando l’impasto era pronto, si provvedeva a ricavarne le forme circolari,
decisamente di diametro inferiore al formato delle classiche pizze che in
Italia vengono servite nei ristoranti e più tardi confezionate dalle grandi
case del settore alimentare.
Le forme venivano poste nelle grandi teglie di
metallo che altro non erano se non i ripiani dei carrelli che successivamente
andavano inseriti nei forni per la cottura. Ogni carrello aveva una decina di
ripiani, ciascuno dei quali conteneva una dozzina di pizze. Una volta ottenuta
la cottura, le pizze erano pronte per
essere trasferite, spingendo a braccia i carrelli sino al settore dove iniziava
la preparazione che ho già descritto, con l’avvio del nastro trasportatore
gestito dai colleghi egiziani.
Io
venni aggregato al settore panificazione dove imparai presto le varie fasi
della lavorazione. Il mio istruttore fu un ragazzo ligure, garbato e
calmo, che si chiamava Giampiero (di cui
ho già avuto modo di parlare).
Fu lui che mi indicò cosa e come fare, ma lo
fece con gentilezza e senza mostrarsi saccente o supponente, come spesso accade nei luoghi di lavoro nei
confronti dei nuovi arrivati.
Fra
gli altri italiani che ricordo, oltre a
Donato e Giampiero, ricordo anche
Natale, un veneto che aveva due grandi amori: le moto e l’hashish; non saprei
dire quale delle due passioni gli costò la vita, forse furono entrambe; morì
infatti in sella alla sua moto, qualche tempo dopo, in seguito a un incidente
stradale di cui non seppi mai l’esatta dinamica. C’era poi Arturo, un
ventottenne alquanto originale, forse emiliano o romagnolo. Ricordo che
portava un orecchino pendente all’orecchio
sinistro, che quasi gli aveva
staccato il lobo, capelli lunghi e denti gialli e piccoli, corrotti sicuramente
dal fumo delle sigarette che fumava in continuazione. Aveva sul viso una
perenne espressione di estasi che, con
qualche malevolenza, si sarebbe anche
potuta descrivere ebete o assente; non di meno, egli svolgeva il suo lavoro con
efficienza, seppure assorto in quella sua aria di eterno estraniamento che
interrompeva soltanto per gridare «trolley!», con cui invitava qualcuno a
ritirare i carrelli con le pizze appena sfornate, indicando al contempo che
necessitava di un altro carrello vuoto; oppure gridava «enough!», quando i
trolley vuoti erano diventati troppo numerosi davanti al forno. Dopo gli si
ristampava in viso quel sorriso estatico che i miei compagni di lavoro, senza
che io li sollecitassi, mi dissero fosse da attribuire ai suoi abusi di
sostanze stupefacenti varie e non meglio identificate.
Altri
ragazzi andavano e venivano; gente di passaggio; studenti in cerca di un lavoro
provvisorio; quasi nessun inglese, molti italiani. Giampiero era una specie di
capo, forse supervisor o assistant menager, non saprei dire; ma non faceva
pesare il suo grado ed era sempre gentile con tutti, pur se pretendeva la
massima efficienza.
Il
lavoro in sé era abbastanza impegnativo. A me pesavano soprattutto due cose:
alzarmi presto al mattino e rinunciare al riposo pomeridiano. Ma per il resto
il lavoro non era male.
E
durante l’week end, in linea con la
migliore tradizione britannica, non si lavorava.