«Mio
nonno diceva sempre che la gatta frettolosa fece i gattini ciechi!»
disse il Santiago De Candia, che si divertiva un mondo per la reazione che
suscitavano queste massime latine nel sovrintendente, che le detestava
apertamente. Nondimeno cercava sempre, più che di tradurle, di trasmettere al
sovrintendente il senso di quello che Zuddas intendesse dire, affinché Farci
non si sentisse del tutto escluso.
Ma in realtà era un gioco delle parti, frutto della
loro ordinaria interazione, quasi come due innamorati in cerca di un pretesto
per litigare e potere poi fare pace.
«Ma
perché non parli come mangi?» protestò infatti il
sovrintendente Farci all’indirizzo del collega.
«Sarà
meglio che vada subito in procura!»
disse il commissario alzandosi, dopo aver dato uno sguardo al fax e averlo
riposto in una cartella intestata alla sezione omicidi.
«Viene con noi al bar per un aperitivo,
commissario?» chiese l’ispettore Zuddas.
«No grazie. Un’altra volta magari. Non
vorrei che il procuratore, nel frattempo, lasciasse l’ufficio!»
«Di sicuro non andrà a farsi intervistare!»
disse il sovrintendente Farci, riferendosi al fatto che il procuratore capo si
faceva intervistare soltanto per annunciare la risoluzione di casi giudiziari
di vasta eco mediatica che spesso, però, finivano nelle loro mani per una più
attenta risoluzione investigativa.
Santiago De Candia
interpose un sorriso di intesa e si avviò verso l’uscita.
«Et cave canem!»
gli gridò dietro l’ispettore, prendendo a braccetto il collega per guidarlo
verso il bar.
Il commissario si voltò e li salutò con un cenno della
mano.
Come ogni giorno a Cagliari, dopo mezzogiorno, si era
levata una brezza leggera dal mare. De Candia si coprì la bocca con la sua
immancabile sciarpa rossa. Di seta
leggera o di lana pesante, se ne privava
soltanto per andare al mare o quando indossava la tuta da ginnastica. Si
sistemò i baffi e i capelli, già spruzzati di grigio ma entrambi ancora folti e
si diresse con passo deciso in direzione del Palazzo di giustizia.
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