last moon
sabato 20 agosto 2022
Profeti, politici e cialtroni
lunedì 8 agosto 2022
La Squadra Omicidi di Cagliari in azione - 1
martedì 2 agosto 2022
Omicidio a Cagliari - 8
Capitolo ottavo
Il sabato pomeriggio,
verso le 16,30 il commissario Santiago fu svegliato dalla vibrazione del suo
cellulare. Il suo rapporto con la tecnologia era stato da subito ambiguo, per
non dire schizofrenico.
Finché aveva potuto, aveva resistito con la sua macchina da
scrivere Olivetti e senza cellulare. Poi, per amore di sua moglie, si era
rassegnato a portare con sé un cellulare; e in ufficio era arrivata,
obbligatoria e improrogabile, la nuova tecnologia informatica; e anche lui si
era dovuto piegare all’uso del computer e degli altri strumenti informatici.
Erano innegabili i vantaggi che la nuova frontiera
tecnologica aveva portato con sé: la velocità della comunicazione via Internet,
consentiva la trasmissione di documenti e messaggi scritti e vocali in tempo
reale e in maniera diretta; la redazione dei documenti era agevolata dalla
possibilità di correzioni multiple e contestuali, oltre che dalla eventualità
di redigere i nuovi documenti, partendo
dai vecchi; e le informazioni viaggiavano alla velocità della luce da un capo
all’altro del globo, comprese le informative tra le questure e tra queste e le
direzioni generali del ministero; anche lo scambio di informazioni con le
sezioni criminali estere (criminalpol, europol e quant’altro) era divenuto più
diretto e immediato. Eppure, mentre si adeguava di buon grado a quella
inarrestabile rivoluzione tecnologica, forse per un inconscio atteggiamento di
autodifesa verso quei rinnovamenti troppo repentini e incontrollabili, capaci di travolgere secoli,
se non millenni, di abitudini acquisite, il commissario De Candia, si immergeva
tuttavia, in un mare di nostalgico
romanticismo, dove il passato assumeva i contorni di una epopea di felicità
ormai perduta.
Amava ripetere, al proposito, che per fortuna gli altri uomini erano diversi da lui, altrimenti l’umanità
si troverebbe ancora a vivere nelle caverne o tutt’al più nelle palafitte, procacciandosi il cibo con arco e frecce; e magari avrebbe trascorso le notti d’estate sotto il cielo stellato, trasmettendo oralmente fantastiche storie di magiche avventure, custodendo i segreti della scienza e della medicina dentro templi di pietra e adorando improbabili dei sotto la luna splendente.
Si trattava evidentemente
di una iperbole, provocatoriamente assurda e indifendibile, ma c’era un fondo
di verità in quei discorsi, emblematici di una personalità conservatrice e riservata, quasi votata a un monachesimo profano o a un eremitismo
romantico.
E il suo cellulare non
aveva suoni ma solo vibrazioni; quasi una rivalsa verso un mezzo al quale non
voleva concedere uno spazio di intervento troppo ampio.
A pranzo si era cucinato
delle orecchiette alle alici marinate e due triglie di scoglio alla livornese;
il vino bianco e fresco lo avevano predisposto alla migliore siesta che si
potesse desiderare in un pomeriggio di maggio. Il suo udito superfino avvertì
la vibrazione, mentre le spire di sogni confusi si diradavano fugacemente.
«Sì?»
«E’ il commissario De Candia?» chiese
una voce femminile che non sembrava del tutto sconosciuta.
«Sì!»
«Non
la sapevo amante dell’opera!»
Adesso che il
suo cervello aveva ripreso a funzionare a pieno regime, riconobbe subito quella
voce
«Luisa! Ma che piacere! Come stai?»
«Grazie per le splendide rose, Santiago!»
disse la voce all’altro capo del telefono. Adesso il tono era passato dalla
celia di prima, a una frequenza intima e sottile che penetrò profondamente
nell’animo del commissario. «Meno male!»
pensò, poco prima di dire a voce alta:
«Contento che ti siano piaciute!»
«Sono stupende!»
Il commissario percepì ancora nelle corde più intime del
suo cuore, il sentimento e le vibrazioni che emanavano da quella voce.
Al mattino, mentre si recava al mercato civico di San
Benedetto, per il suo consueto shopping
alimentare del sabato mattino, era
passato davanti a un negozio di fiori e aveva vinto i suoi dubbi e le sue
ritrosie. Le aveva mandato quindici rose rosse (dodici erano pari e non andava
bene, gli aveva detto il fioraio; e tredici non andavano bene a lui; ) con un
invito per il matinèe al teatro dell’opera, dove andava in scena, il giorno
dopo, la Carmen di Bizet.
«Volevo ringraziarti anche per l’invito a
Teatro che accetto ben volentieri!»
aggiunse Luisa Levi, tornando al suo consueto tono di voce, squillante e
professionale, che al commissario piaceva comunque tanto.
«Benissimo. Allora ci vediamo domani! Passo
a prenderti alle 17,30!»
«D’accordo. Ma se la giornata lo consente,
sarebbe bello andare a piedi. Da casa mia è sufficiente attraversare il Parco
della Musica e siamo subito a Teatro!»
«Va bene. Parcheggerò nei dintorni e poi
andremo a piedi!»
«Trattandosi di un matinée non penso di
mettermi in abito da sera…»
Il commissario rifletté solo un attimo. L’avvocato
Levi non parlava mai soltanto per parlare.
«Tranquilla, non mi metterò lo smoking!
Forse un abito beige, addirittura..»
«Buono a sapersi!»
commentò Luisa Levi soddisfatta. E subito dopo aggiunse:
«Com’è andata la riunione del venerdì?»
«Bene! Domani ti dirò»
rispose il commissario che non amava intrattenersi troppo al telefono, neanche
con una persona speciale come lei.
«Anche io ho delle novità in proposito…»
disse lei a sua volta.
«Non vedo l’ora di sentirle e non vedo
l’ora di vederti!» si sbilanciò il
commissario, per farle capire, ma con il dovuto garbo, che avrebbe preferito
parlarne di persona.
Lei capì al volo e dopo qualche altro convenevole di
prammatica si salutarono.
Il commissario voleva godersi ancora un po’ il suo
confortevole divano; si preparò un caffè, mise un disco della Carmen e dopo
aver recuperato il libretto che venti anni prima aveva acquistato al teatro in
occasione della regia che il grande Peter Brook aveva curato per quell’opera
all’anfiteatro romano, ormai chiuso agli spettacoli da anni, si dedicò alla
lettura del libretto. Gli serviva da ripasso, ma gli sarebbe stato utile
qualora la sua accompagnatrice si fosse voluta confrontare con lui su
quell’opera così densa di sentimento e di passione.
La sua accompagnatrice, all’indomani, si mostrò
alquanto preparata. Si era vestita con una
gonna plissettata color ocra, al ginocchio e un maglioncino nero, a
maniche corte, sui spiccava un filo di perle bianche. Una giacca in tinta con
la gonna e una pochette rossa, a tracolla,
abbinata nel colore alle scarpe
tacco dieci, completavano la sua mise
elegante.
Il commissario ebbe da ridire sulla regia, che aveva
ambientato la vicenda negli anni trenta del secolo ventesimo, invece di
adeguarsi all’ambientazione originale, che retrodatava a oltre un secolo
precedente. Luisa lodò come
apprezzabile lo sforzo registico,
definendolo un tentativo apprezzabile di svecchiare l’opera.
In pizzeria riuscirono a parlare della vicenda di via
Giudicessa Adelasia. L’avvocato Levi consegnò al commissario un elenco completo
e una descrizione dettagliata dei gioielli che erano custoditi nella
cassaforte, appartenuti alla povera signora Emma Pirastu. Quella donna non
smetteva mai di sorprenderlo per l’intelligenza e il fascino che riusciva a
dimostrare in eguale misura e in pari intensità. Lo informò inoltre che il suo
assistito era andato in Banca e aveva scoperto che era stati effettuati due
prelievi con il bancomat, in due giorni differenti: il giorno dell’omicidio e
il giorno dopo. Poi la banca, letta la notizia sul giornale aveva provveduto a
bloccare il conto corrente.
Alessandro Pirastu aveva precisato che, nonostante le
sue raccomandazioni in senso contrario, sua zia si ostinava ad avvolgere la
tessera bancomat in un foglio di carta ove aveva trascritto il codice segreto
(che lui invece ricordava a memoria). Quindi il ladro omicida aveva avuto gioco
facile a fare i prelievi.
Per quanto
riguarda il libretto postale le cose erano un po’ più complicate. Era stato emesso dalle Poste Centrali di
Piazza del Carmine ma i prelievi, con appropriati documenti di identità, si potevano fare
prelievi in tutti gli uffici d’Italia, nel limite, pare, di seicento euro al
mese. Col libretto erano spariti anche la carta di identità della vittima. Il
suo assistito si sarebbe recato alle Poste per vedere di bloccare il libretto,
pur se non ne ricordava a memoria gli estremi. Ad ogni buon conto, lei, l’avvocato,
avrebbe provveduto a mandare una diffida alla sede legale di Torino per
bloccare comunque i prelievi da ogni titolo cartaceo, materiale o
immateriale, intestato alla defunta Emma
Pirastu.
Insomma per il commissario non era rimasto un granché
da fare, almeno con riguardo alla Banca e alle Poste.
Si salutarono in via Giudicessa Vera, una parallela
della via Torbeno e della stessa via Giudicessa Adelasia dove il commissario De
Candia aveva parcheggiato la sua auto.
Luisa gli diede un bacio fugace sulle labbra,
stringendosi a lui con trasporto e ringraziandolo ancora per le rose rosse e
per la serata trascorsa insieme.
Vedendola andar via, il commissario si chiese se
l’avesse potuta ancora stringere tra le braccia. Era la cosa che avrebbe voluto
di più, in assoluto.
sabato 30 luglio 2022
Omicidio a Cagliari - 7
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Capitolo Settimo
L’indomani era venerdì e come
ogni settimana, alle dieci in punto, si tenne la riunione del team operativo
della squadra omicidi capitanata dal commissario Santiago De Candia.
Il commissario faceva
sempre in modo che il numero dei fascicoli non superasse mai il numero di sei,
massimo sette, tra nuove acquisizioni che arrivavano e vecchi fascicoli che tornavano in procura
per l’archiviazione. Ma anche per la proroga semestrale delle indagini ovvero
per il rinvio a giudizio dei diversi indagati, a secondo di quello che reputassero più opportuno i vari procuratori titolari
delle indagini, fossero essi sostituti o capi procuratori.
La mattinata di lavoro
iniziò con l’analisi del fascicolo dei due fratelli uccisi a Settimo San
Pietro. L’evento criminoso si inseriva in una faida che durava da oltre mezzo
secolo e le indagini erano in completo stallo. Impossibile rompere quel muro di
omertà che si ergeva attorno a queste vendette, che finiscono quasi per
diventare un fatto privato delle famiglie in guerra. Probabilmente ci sarebbe
stato, tra qualche mese o tra qualche anno, un’altra vendetta, e la catena
della faida si sarebbe allungata ancora con il sangue di nuove vittime. «Ci
vorrebbe l’occhio del Padreterno, come per Caino e Abele!» disse sconsolato
l’ispettore Zuddas che si era buttato anima e corpo nell’indagine, e quel mondo
agropastorale lo conosceva abbastanza, essendo stato sposato con la figlia di
un possidente allevatore di bestiame del quale, in realtà, non era mai riuscito
a penetrare la complessa personalità fatta di codici d’onore, di usi e costumi
tanto arcaici, quanto barbari che lui non condivideva di certo.
La squadra era stata più
fortunata nel caso della prostituta strangolata. Il sovrintendente Farci era
riuscito a mettere il sale sulla coda a un protettore che tentava di farsi
largo a discapito di altri suoi colleghi. Un lenone emergente e rampante, lo
aveva definito l’ispettore con una delle sue mirabili pennellate letterarie
tratte dal suo infinito repertorio latino, mandando su tutte le furie il sovrintendente
Farci, ma facendo sorridere nascosto dai baffi, il commissario De Candia.
Del corpo privo di arti e
restituito dal mare erano ancora in attesa delle analisi dell’istituto di
anatomopatologia e di qualche riscontro dalla banca dati del DNA.
I due collaboratori del team
relazionarono a turno sugli altri tre casi che parevano in dirittura di arrivo,
pronti per essere restituiti alla procura per la chiusura delle indagini. In
particolare il sovrintendente Farci era riuscito a scovare il matricida, indagando
nel mondo dei tossicodipendenti. Ma non era stato tanto difficile, aveva
spiegato relazionando ai suoi colleghi
più anziani perché anche nel mondo della droga esiste un codice d’onore che
condanna senz’appello chiunque osi toccare la mamma. E che comunque, in quel giro,
si trova sempre qualcuno che, in cambio di un trattamento di favore o di una
promessa, è pronto a tradire uno che, oltre ad avere ucciso la propria madre,
ha attirato sul loro mondo quelle indesiderate attenzioni che la Giusta e la Pula
dedicano ai casi di omicidio, considerati intollerabili e perseguiti con
maggiore severità, rispetto al semplice, piccolo spaccio, fatto dai tossici per procacciarsi
la roba necessaria a tacitare il loro terribile vizio di tossicodipendenza.
L’ispettore Zuddas, dal
canto suo, riferì che aveva praticamente risolto i due casi di femminicidio,
verificando da un lato l’effettiva
colpevolezza del primo degli assassini, suicidatosi subito dopo avere
ucciso la propria compagna, che aveva deciso di lasciarlo. E aveva già raccolto la confessione del secondo caso di uxoricidio
loro affidato. In questa circostanza precisava il pignolo ispettore, si
trattava di una coppia che si era sposata in giovanissima età. Con il tempo la
donna era maturata e aveva sviluppato una forte personalità, anche in campo
professionale, e aveva finito per surclassare l’uomo, il quale, ancorato a
schemi arcaici nei rapporti di coppia, e incapace di gestire la nuova
situazione dal punto di vista psicologico, aveva scelto la comoda scorciatoia
di eliminare il problema alla radice, uccidendo la moglie con il suo fucile da
cacciatore. Adesso però a Zuddas serviva un po’ di tempo per verificare ed
eventualmente completare i documenti delle altre pratiche.
L’ultimo fascicolo che il
commissario pose in evidenza fu quello dell’omicidio di via Giudicessa
Adelasia.
Il sovrintendente Farci
riferì subito che un loro confidente, infiltrato nella banda dei fratelli
Cannas, noti anche nell’ambiente come ‘I fratelli Chiodi’, praticamente due
boss di topi d’appartamento e di rubagalline del capoluogo e dell’hinterland
cagliaritano, riferiva che nella zona dei Giudicati e di Piazza Giovanni
operava un certo Ninni Girau, noto come sa Mantininca, che in cagliaritano
identifica una scimmietta da circo e il tizio in questione doveva il suo
soprannome all’agilità con cui si arrampicava sui tetti degli edifici. Poi si
infilava attraverso finestre, lucernai, grate e strettoie varie, nei bar, nelle
case, nei negozi e nei magazzini per ripulirli di quanto più prezioso gli
riuscisse di arraffare. Sa Mantininca era uscito da ‘casanza’, come la mala
cagliaritana chiama il carcere, nel mese di marzo del corrente anno, dove era
entrato per la quarta volta pur essendo ben accreditato nell’ambiente della
mala, grazie a una cinquantina di ‘sgobbi’, come la mala locale chiama i furti
d’appartamento e dei negozi, realizzati con destrezza, anche in pieno giorno.
Farci, con la sua
consueta solerzia si era già procurato dal Casellario Giudiziario la sua fedina
penale.
Il commissario, sempre
aggiornato con una meticolosità maniacale, sulle statistiche annuali dei reati
denunciati, di quelli perseguiti e delle condanne che redigeva la Direzione
competente del Ministero degli Interni,
commentò che la percentuale del sullodato Mantininca era in linea con le
statistiche ufficiali del Ministero e si complimentò con il sovrintendente per
l’ottimo lavoro svolto, mentre allegava i documenti e i fogli con gli appunti
che Farci aveva consultato nella sua esposizione.
«Io direi che vale la pena di assumere dall’indagato
informazioni utili!» aggiunse il commissario,
precisando che a giorni avrebbe consegnato un elenco e una descrizione dei
gioielli spariti dalla casa della vittima e che, di conseguenza, sarebbe
occorso interessare i ricettatori della zona.
«E lo stesso farei per la zona di Carbonia!
Che ne dici Zuddas?» aggiunse ancora De
Candia rivolto all’ispettore che sembrava essersi assentato dal contesto, forse
annoiato dalla pedanteria del collega
Farci che a lui, al contrario del commissario, non piaceva affatto.
«Ah, sì certo!»
esclamò Zuddas, preso alla sprovvista, affrettandosi a consultare dei fogli che
aveva già in mano prima di relazionare. «Sono
stato anche a Carbonia. Dunque, risulta che gli unici parenti, oltre al nipote indagato,
quello con il coltello insanguinato in mano, per intenderci, aveva due
nipoti, figli di una sorella, premorta e
il papà dell’indagato, fratello minore della vittima e anche della sorella
morta, che era la maggiore dei tre. I nipoti di Carbonia si chiamano: Maria Grazia
e Andrea Picciau, orfani di entrambi genitori. Lei è impiegata al Comune di Villamassargia, un piccolo paese
poco distante da Carbonia. Ha vinto un regolare concorso pubblico e lavora lì
da più di dieci anni. Pare che sia un’impiegata modello. Il fratello maggiore,
invece, Andrea ha dei trascorsi burrascosi da tossicodipendente ma ha la fedina
penale pulita, a parte qualche denuncia , a metà tra spaccio e consumo, ma ha
sempre evitato il carcere, un po’ perché i suoi genitori, quando erano in vita,
lo hanno fatto seguire dai migliori avvocati e non gli hanno fatto mancare i
soldi in tasca. Un po’ perché ultimamente, in pratica da quando sono morti i
genitori, ha accettato di seguire un progetto di recupero ed è ospite di una
comunità nelle campagne che circondano il sito archeologico di Monte Sirai. Il fine settimana chiede un
permesso e va a stare a casa della sorella, non disponendo di abitazione
propria, né di mezzi economici per prenderne una, neppure in affitto.
«Bene!»
commentò soddisfatto il commissario, omettendo di dire al suo collaboratore che
quelle cose le sapesse già. «Anche io mi sono dato da
fare e ho scoperto che la cassaforte della vittima è stata ripulita e sono
spariti titoli e gioielli. E siccome dai verbali non risulta che il nipote imputato
avesse addosso quei titoli e gioielli, né sono stati rinvenuti a casa di suo
padre nella successiva perquisizione, ne deriva, giocoforza, che qui dobbiamo
continuare a battere le due piste che già stiamo battendo. L’assassinio deve essere
maturato nell’ambito di un furto finito male, anche se non escluderei che
questo furto possa essere stato opera di una persona conosciuta dalla vittima»
«Tertium non datur?»
chiese Zuddas, sfoggiando il suo consueto repertorio di espressioni latine.
«No, no, direi di no!»
si affrettò a dire De Candia, prevenendo le proteste di Farci, che non amava
affatto questo sfoggio di espressioni latine che il suo collega non mancava di
fare, a ogni riunione. «Non credo che
l’assassino, chiunque egli sia, fosse in combutta con il nipote indagato.
D’altronde, non aveva alcun interesse a fare sparire i documenti dalla
cassaforte, alla luce del fatto che fra di loro pare vi fosse un testamento che
lo nominava erede universale dei beni della zia defunta!»
«Caspita! Che notizia!»
esclamò il sovrintendente Farci con un fischio di sorpresa.
«Ma non sarà che questo aggraverebbe invece
la sua posizione di indagato?» osservò l’ispettore
Zuddas, che amava sempre fare la parte dell’avvocato del diavolo. Proprio per
questo era apprezzato dal commissario, che non dava mai niente per scontato e
voleva sempre valutare anche ogni più remota possibilità!.
«Tu dici?»
chiese rivolto al suo collaboratore.
«Be’, certa gente non sa aspettare il
momento giusto e non vede l’ora di intascare l’eredità. Del resto era noto
anche agli antichi che ‘ambulatoria est voluntas defuncti usque ad vitae
supremum exitum’»
«E
tu, Farci, che ne dici?»
«Al di là degli ambulatori e dei latinorum
di Zuddas» rispose il sovrintendente che non amava
quel vezzo di parlare per massime latine del suo collega, ma che lo apprezzava
per il resto.«Io credo che qui ci troviamo davanti
all’azione di un solo uomo. Il suo profilo sembrerebbe corrispondere a ‘Sa
Mantininca’ o magari anche a quell’altro nipote della vittima, quello che vive a Carbonia. Anche se non escludo del tutto altre ipotesi, ma
queste due mi sembrano le più verosimili!»
«Se siete d’accordo allora approfondirei,
per il momento, queste due ipotesi. Restiamo pronti e aperti a ogni svolta. Del
resto, se ci pensate bene, mentre sembra impossibile trovare un legame tra l’indagato Alessandro Pirastu e quel topo
d’appartamento, come lo chiamano? sa Mantininca, non sarebbe fuori
contesto un legame tra i due
cugini. Ma attenzione, qui c’è un gran
però! Il cugino di Carbonia subentra nell’eredità in maniera diretta, per
rappresentazione, dato che la madre, sorella della vittima, è già morta.
Alessandro, l’altro cugino, senza testamento non becca l’ombra di un quattrino,
perché prima di lui c’è il padre, collaterale di terzo grado, né più né meno,
come la sorella defunta Anita, che però ha trasmesso il grado di parentela ai
figli, Maria Grazia e Andrea»
«A questo non avevo pensato davvero,
commissario!» esclamò Zuddas in tono di ammirazione «E
anche un accordo tra una persona come Alessandro Pirastu e sa Mantininca mi
parrebbe non plausibile. Resta pur sempre una remota possibilità che l’accordo
possa magari esserci stato tra questo Mantininca e il cugino di Carbonia…»
«Ma infatti»
convenne il commissario. «Non chiudiamo del tutto
una simile eventualità. Se c’è un collegamento tra i due, vedrete che salterà
fuori! Io sono sicuro di riuscire a procurarmi un elenco e una descrizione dei
gioielli sin dai primi giorni della settimana prossima. Poi ne faccio una copia
per ciascuno di voi e vediamo di scoprire che fine hanno fatto questi gioielli.
Se da qualche ricettatore di Cagliari, oppure da qualcuno di Carbonia. Inoltre
cerchiamo di scoprire dove si trovavano i due indiziati sullodati all’ora e nel
giorno dell’omicidio. Verifichiamo i loro alibi. Io mi occupo delle indagini
sul libretto postale e sulla carta del Bancomat che sono spariti insieme al
testamento e agli altri documenti. E ci aggiorniamo alla settimana prossima!»
«Se vuole posso occuparmi io anche del libretto
postale e della tessera bancomat!»
disse il sovrintendente con la sua consueta disponibilità.
«Commissario, conti anche su di me!»
confermò l’ispettore Zuddas.
Entrambi i collaboratori preferivano che il loro
coordinatore si concentrasse sull’analisi dei fascicoli. Un po’ perché
preferivano l’indagine sul campo e un po’ perché si rendevano conto di quanto
De Candia volasse sempre una spanna più in alto di loro nell’analisi e nella
verifica dei risultati delle varie indagini. E’ per questo che lo ammiravano incondizionatamente.
«No grazie, ragazzi. Penso di farcela ».
«Chi paga oggi l’aperitivo?»
chiese Zuddas.
«Oggi pago io! Però devi promettermi che da
qui al bar e anche al ritorno, non parlerai latino!»
«Videtur acceptum!»
esclamò l’ispettore con tono provocatorio!
Il
sovrintendente rispose per le rime! E spingendosi come due scolari, si
avviarono tutti insieme al bar.
Il
commissario si considerò fortunato ad averli tra i suoi collaboratori.
mercoledì 27 luglio 2022
Omicidio a Cagliari - 6
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Capitolo Sesto
Il
mercoledì successivo, mentre rientrava a casa dalla passeggiata nel Parco di
Monte Urpinu, il commissario De Candia ricevette una telefonata. La voce di Luisa, sempre calda e piacevole, gli
comunicò di essere finalmente in possesso della chiave della cassaforte a muro
della casa dell’omicidio, quella di quel ragazzo con il coltello insanguinato
in mano.
«Luisa, pensi che ci sia ancora la corrente
elettrica in funzione?»
«Non
lo so se qualcuno ha chiesto l’interruzione dell’energia elettrica. Io sono
ancora a studio.»
«Allora
rimandiamo a domani. Anche se io ho il rientro pomeridiano fino alle 18:00, ma
a quell’ora c’è ancora luce e volendo potrei uscire anche un po’ prima.»
«Beh,
io posso chiudere lo studio verso le 17:00 visto che non ho appuntamenti
fissati dopo quell’ora.»
Si
diedero appuntamento direttamente in via Giudicessa Adelasia per le 18:30, dopo
i convenevoli di routine.
Santiago De Candia si chiese se un simile sopralluogo, effettuato con l’avvocato difensore dell’unico indiziato, fosse corretto da un punto di vista professionale. L’esame di procedura penale lo aveva sostenuto, all’università, parecchi anni prima e non ricordava, in quel momento, quale fosse l’esatto iter procedurale da rispettare. Considerò tra sé e sé che, per prima cosa, l’indiziato era stato comunque rimesso in libertà dal Tribunale. Poi, l’avvocato si era offerta di dare una mano per identificare il vero colpevole. E infine, per evitare complicazioni, non avrebbe mai fatto figurare ufficialmente quel
sopralluogo. ‘Quod non est in actis, non est in mundo’, avrebbe detto il suo valido collaboratore, l’ispettore Zuddas. Dopo tutto, in coscienza, lui sapeva di non compromettere le sue indagini. Anzi, l’aiuto dell’avvocato Levi sembrava costituire persino un valore aggiunto per la soluzione del caso.
Il
commissario aveva ripensato molto alla giornata di domenica. Da quando era
morta la moglie, più di cinque prima, non aveva avuto storie particolarmente
coinvolgenti. Soltanto Luisa lo aveva in qualche modo conquistato. Non era
soltanto un’attrazione fisica, anche se l’avvocato Levi aveva un corpo sodo
accompagnato da una intelligenza vivace come piaceva a lui. In realtà quella
donna esercitava su di lui un fascino indefinibile. Da un lato, materno con
quella sua avvolgente sicurezza femminile e quel suo seno florido e prosperoso.
Però, sentiva che quella professionista abile e caparbia fosse alla ricerca,
come tante donne, di un punto di riferimento o di un centro di stabilità. La
sua sicurezza e la sua grinta erano autentiche, solide e profonde ma, non di
meno, egli intuiva che la sua femminilità avesse bisogno di un elemento di
completamento che non sconfinasse e non collidesse con la rivalità
professionale e il confronto quotidiano e continuo. D’altronde, non era forse
uguale per gli uomini? Non cercavano anch’essi una figura femminile che li
completasse, dando loro stabilità, protezione, affetto?
Sin
da lunedì era stato incerto se mandarle
un mazzo di rose rosse, come soleva fare, seppure in occasione di ricorrenze,
con sua moglie. Il suo sarebbe stato un gesto per manifestarle la sua
ammirazione, il suo ringraziamento per la bella giornata trascorsa insieme. Un
gesto per dichiarare apertamente la passione che provava per lei.
Poi
aveva scelto di non inviarle perché tra
loro non c’era stata una vera e propria spiegazione in occasione del loro
casuale incontro del sabato precedente. Anzi lui aveva capito che il silenzio
di lei nei mesi precedenti era da attribuirsi, non tanto alla sua paura di
innamorarsi, quanto piuttosto al timore che dall’innamoramento passionale si
potesse passare a una relazione piatta e ordinaria, fatta di abitudine e
routine.
Aveva
deciso così di darle tutto il tempo di cui lei avesse avuto bisogno. Neanche
lui, in fondo, era in cerca di una relazione standardizzata sull’ordinario,
priva di emozioni e fatta di abitudini e convenzioni. Santiago si era, alla
fine, adeguato a quella che sembrava essere la scelta di lei. Un rapporto senza
vincoli, ricco di sincerità, ma anche di libertà. Amore e indipendenza e con
una travolgente passione da vivere alla giornata.
Quando
arrivò alla casa di via Giudicessa Adelasia lei era già lì che aspettava. Aveva
ripreso le sue eleganti sembianze professionali, con il suo mezzo tacco nero,
il tailleur sartoriale color amaranto, il suo preferito. I capelli raccolti in
un elegante chignon e il trucco leggero, ma sapiente, donava ancora più luce ai
suoi occhi e alla sua pelle.
Si
salutarono affettuosamente, come due vecchi amici. Subito il commissario
armeggiò con le chiavi che gli avevano dato in procura e che erano state
sequestrate all’assistito dell’avvocato Levi, il presunto assassino con il
coltello insanguinato in mano. Quando furono dentro casa l’avvocato provò le luci.
La corrente c’era ancora, anche se non serviva. L’appartamento era luminoso e
il sole illuminava ancora quella bella giornata di maggio. Il commissario
sollevò le tapparelle del salottino della casa della vittima di quel brutale
assassinio, ancora avvolto nel mistero, ancora senza un colpevole vero. Dalla
finestra vide un volo di fenicotteri, come una squadra di aerei, sfilare verso
la zona degli stagni.
L’avvocato
aprì la borsetta e consegnò la chiave al commissario, che nel frattempo aveva staccato
dalla parete il quadro che copriva la cassaforte a muro.
Luisa
gli stava di fianco e si sollevò sulla punta dei piedi per vedere meglio
l’interno della piccola cassaforte. Ma non c’era niente. Il commissario passò
la mano destra su entrambi i ripiani, per esserne ancora più certo. La
cassaforte era davvero vuota.
I
due si guardarono. La più incredula sembrava però proprio Luisa.
«Mi
ha detto il mio assistito che oltre al testamento, la zia ci teneva dei buoni
postali nominativi, diversi gioielli personali, alcuni documenti, tra cui la
carta d’identità e il codice fiscale.»
«Senti,
e la chiave della signora dove potrebbe essere? Ho visto delle chiavi
nell’ingresso…»
«Vado
a prenderle!» si offrì lei prontamente. «Anche
se so che la chiave della cassaforte, la signora Emma, la teneva nel primo
cassetto del comò, insieme alla carta del bancomat e a piccole somme in
contanti.»
«Io
vado a fare una ispezione più accurata rispetto a sabato scorso!»
disse il commissario mentre lei andava a prendere le chiavi.
Quando
tornò con diversi mazzi di chiavi, il commissario aveva svuotato quasi del
tutto il primo cassetto, disponendo il contenuto che aveva estratto sul letto
della povera vittima, più o meno nello stesso ordine in cui lo aveva trovato.
«Ecco
tutte le chiavi appese nell’ingresso. La chiave della cassaforte non c’è. Quindi deve essere per forza qui!»
Così
dicendo si mise a esaminare ciò che Santiago aveva estratto dal cassetto. Nel frattempo il commissario rovistò negli
altri cassetti del comò.
«A
meno che…» disse Luisa mano a mano che si rendeva
conto che la sua cernita e quella del commissario non avrebbero sortito alcun
risultato.
«A
meno che non se la sia portata via l’assassino!»
completò il commissario, anticipandola.
«Quello
vero!»
precisò l’avvocato. Nel suo viso, adesso, l’incredulità aveva lasciato il posto
a una certa soddisfazione. Alla sua tesi stavano arrivando conferme,
scagionando definitivamente, se ancora ce ne fosse stato bisogno, il suo
assistito anche agli occhi del commissario
«Per
scrupolo io cercherei meglio. Magari la chiave è stata riposta dalla stessa
vittima in un altro posto…magari anche nella tasca di una vestaglia. Che ne
dici di rovistare insieme tutto l’appartamento?»
«Dico
che va bene! Ma chissà perché io penso che non troveremo niente!»
Dopo
un’ora abbondante la loro ricerca certosina non aveva dato alcun esito.
L’intuito dell’avvocato aveva visto giusto. Qualcuno aveva preso la chiave
della cassaforte, portando via anche tutto il contenuto, oltre la carta del
bancomat e i soldi. E questo qualcuno poteva essere soltanto il fantomatico
assassino senza volto.
«Ma
come avrà fatto?» chiese Luisa come
interrogando se stessa. «C’erano i Carabinieri,
qui, in casa. Possibile che l’assassino avesse già svuotato la cassaforte quando
sono arrivati i Carabinieri? E se aveva già svuotato la cassaforte cosa faceva
lì in cucina, dove è stato trovato il corpo della signora Emma?»
«Vieni,
andiamo su in mansarda. Io un’idea ce l’avrei!»
disse il commissario avviandosi verso la ripida scala in legno che portava in
mansarda.
De
Candia la precedette e appena in cima si voltò e le tese la mano per aiutarla a
completare l’ultimo tratto di gradini. La mansarda era scarsamente arredata con
un lettino, un comodino, una sedia, un armadio in legno e una scala a libretto,
aperta sotto uno dei due lucernari, proprio come l’aveva lasciata lui dopo il
sopralluogo precedente.
«Secondo
me i fatti sono avvenuti in questo modo! L’assassino è stato scoperto dalla
vittima mentre rovistava in cucina, tralasciamo per adesso che cosa cercasse in
cucina e perché si trovasse proprio lì. La vittima si è messa a urlare, magari
perché il ladro era a viso coperto, o magari perché si è semplicemente
spaventata. Allora il ladro ha afferrato un coltello e l’ha uccisa per farla
tacere. Poi, forse, si è spaventato. Ha pensato di fuggire dalla porta ma deve
avere sentito il rumore del nipote che stava arrivando e così ha cercato di
nascondersi qui, nel piccolo bagno per gli ospiti, di sotto. Oppure, più
verosimilmente, ha pensato di fuggire dalla stessa via da cui era penetrato in
casa. Anche questo dettaglio andrà chiarito. Mi segui nel mio ragionamento?»
chiese il commissario all’avvocato che si era seduta su un lettino che stava
proprio sotto uno dei due lucernari che davano luce e aria alla mansarda.
«Ti
seguo. Vai avanti» rispose la donna,
guardandosi in giro.
«Quando
ha sentito il trambusto che sicuramente hanno fatto i Carabinieri, arrivando
come minimo a sirene spiegate, deve essere salito qui in mansarda per guadagnare
una via di fuga. Però qualcosa lo ha fermato. Forse si è acquattato qua fuori,
in questo anfratto esterno, proprio a ridosso della finestra, vieni a vedere!»
Santiago,
non senza difficoltà, a causa della sua robusta corporatura, si era affacciato
fuori dal lucernario. Scese però con insospettata agilità dalla scaletta in
legno per consentire all’avvocato di salire a sua volta. Luisa Levi annuì dopo
essere ridiscesa, invitando il commissario a continuare.
«Be’,
magari per non rischiare di essere visto, avrà aspettato in cima alla scaletta,
pronto a squagliarsela se soltanto avesse sentito qualcuno salire su per le
scale.»
«Ma
i Carabinieri, convinti di aver preso il vero e unico assassino non hanno
neppure pensato di salire quassù a controllare!»
lo anticipò con convinzione l’avvocato che ormai aveva capito dove volesse
andare a parare l’arguto commissario, dando a intendere che condivideva la sua
ricostruzione.
«Esattamente!»
esclamò lui, contento che la sua amica lo seguisse e fosse d’accordo con la sua
ipotesi. «Quando finalmente si sono calmate le acque
è ridisceso e ha finito l’operazione per cui probabilmente era venuto.
Svaligiare la casa della vittima.»
«Un
topo d’appartamento. Certamente un ladruncolo dotato di sangue freddo!»
commentò Luisa riflettendo.
«Ancora
non sappiamo con certezza se sia davvero entrato con l’idea di rubare o di fare
altro…»
disse in maniera sibillina il commissario.
«Al
di là di questo, la tua ricostruzione mi
sembra abbastanza plausibile» convenne Luisa. «Vieni,
rimettiamo tutto a posto e andiamocene!»
Fecero
a ritroso la strada verso il basso e, rimessa ogni cosa al proprio posto,
uscirono.
Il
sole, adesso, era sulla via del tramonto. Le rondini continuavano a garrire
festose, mentre un’altra colonia di fenicotteri, più numerosi di prima, si dirigevano
in direzione degli stagni di Molentargius. O forse ancora più in là, verso
Quartu Sant’Elena.
«Che
fai ora?»
«Vado
a casa a farmi una bella doccia!»
rispose il commissario senza pensare. «È da stamattina che sono in giro!»
«Perché
non te la fai a casa mia la doccia?»
disse con un sorriso malizioso Luisa Levi.
Al
commissario passò di colpo la stanchezza che aveva accumulato in quella
giornata piena di lavoro.
«Se non disturbo…»
disse così, tanto per dire, e per nascondere l’emozione e la contentezza che
quell’invito insperato gli avevano suscitato.
«E chi dovresti
disturbare? Ti sei dimenticato che mio figlio è in gita scolastica, a
Barcellona?»
«Bene. Accetto volentieri,
allora.»
Quella sera, il commissario si fece una
doccia memorabile, di quelle che rimangono scolpite nei ricordi. Finirono
insieme sotto la doccia, come due adolescenti, a insaponarsi a vicenda, e a
spruzzarsi l’acqua negli occhi. O più semplicemente come due amanti
appassionati. Lui le baciò tutto il corpo, ancora bagnato, mentre l’acqua
scendeva sopra di loro, come una pioggia benedetta, calda e confortevole.
Cenarono insieme e Santiago scoprì così
che lei aveva già cucinato per entrambi.
A notte fonda il commissario si ritrovò
per strada, talmente lieto e sereno, che decise di fare a piedi la strada per
rientrare a casa. Gli sarebbe piaciuto fermarsi a dormire, ma si ricordò che si
era ripromesso di non essere troppo invadente e di lasciare che il loro
rapporto crescesse piano, piano. Poco per volta, alla giornata, come voleva lei.
E come forse voleva anche lui.
Quando arrivò a casa era
davvero stanco. Quella notte non riuscì a comporre le tessere del suo mosaico.
Il sonno arrivò subito. Ma il commissario non fu dispiaciuto, anzi!