Se mi avessero chiesto perché mi
trovassi a Londra, in quell’estate del 1977, io non avrei saputo cosa
rispondere.
A quel tempo già non credevo più nella
rivoluzione del cambiamento, quella che avrebbe dovuto migliorare l’Italia, prigioniera del potere
democristiano, dell’imperialismo americano e dei servizi segreti deviati, trasformandola
in un Paese normale.
Invece ci toccava soltanto subire, rassegnati e impotenti.
Pagavamo ancora il pegno per la
sconfitta della seconda guerra mondiale e io avevo lasciato l’Italia,
frastornato dalle bombe di Stato, dalle chiacchiere sui compagni che
sbagliavano, dagli attentati sanguinari di gruppi terroristici dalle sigle
equivoche e fantasiose; e sospinto dalla mia inguaribile solitudine.
Non che io avessi mai creduto nella
rivoluzione; cioè, ci avevo creduto, poco più che sedicenne, ma così come
credevo nella pace, nella fratellanza dei popoli e in quelle menate in cui si
crede ancora prima dei vent’anni.
Invece, in quegli anni, in Italia, c’era in giro gente che metteva bombe per
davvero; e che sparava; nella migliore delle ipotesi alle gambe, ma sparava sul
serio.
E io, coi miei miti, l’indiano Gandhi, il nero Martin Luther King e Gesù
Cristo, il figlio del falegname Giuseppe e di Maria, dove potevo andare a parare?
È pur vero che mi piacevano anche il
Che, Fidel Castro e Mao Tse Tung, ma soltanto a un livello, per così dire, iconico; e m’infiammavo
a leggere il Manifesto del partito comunista, quello scritto a quattro mani nel
1848 da Engels e da Marx; ma la mia fede rivoluzionaria finiva lì e mi sentivo
come un pugile che voglia salire sul ring con la faccia d’un altro, per
incassare meglio i colpi dell’avversario; o come un pollo spennato che voglia
sentirsi un pavone con le penne altrui, o, se preferite, come uno che voglia
fare il culattone con il deretano degli
altri.
Mio padre odiava gli americani; e quella
era l’unica cosa che ci univa politicamente; per il resto lui sognava l’uomo
forte che mettesse le cose a posto, una volta per tutte.
Il mio vecchio avrebbe voluto che io
diventassi un bravo contabile, ma alla scuola per ragionieri avevo amato tutte
le discipline, fuorché le due materie di indirizzo: la ragioneria e la
computisteria.
Qualcosa di meglio l’avevo combinata
all’università, se è vero come è vero che dopo tre anni avevo sostenuto tutti gli
esami, assolvendo perfino all’obbligo della leva: tredici mesi di servizio
militare, con sei mesi di scuola di fanteria inclusi.
Ma infine qualcosa mi aveva spinto sino
a Londra. Ed ero là, come un cane bastonato, un sasso di fiume o una piuma nel
vento.
Io credo che ogni generazione subisca le
influenze del suo tempo e dell’ambiente in cui cresce e matura le sue
esperienze. Queste influenze, a metà con i caratteri biologici iscritti nel
nostro codice genetico, determinano gli eventi della nostra vita; o ciò che noi
chiamiamo destino.
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