In
quell’anno scolastico 1970-1971 ero approdato alla terza classe dell’istituto
Tecnico per Ragionieri “Leonardo da Vinci” di Cagliari.
Proprio
in quell’anno mi ero accorto di avere sbagliato scuola: la Ragioneria e la
Tecnica Commerciale, materie di indirizzo, mi annoiavano a morte, mentre
studiavo sempre più volentieri l’italiano, la storia e le lingue straniere, il
diritto e l’economia; avrei studiato anche le materie professionali, almeno per
arrivare alla sufficienza.
D’altronde
non è che i professori potessero ammazzarci di studio. Qualcuno l’avrebbe anche
voluto (noi li chiamavamo “fascisti e reazionari”) ma ormai eravamo troppo
impegnati nella lotta contro le vecchie istituzioni scolastiche e chiedevamo a
gran voce di essere arbitri dei nostri destini. I nostri professori e le
istituzioni più in generale, dal Preside sino al ministro della P.I.
(quell’anno, se le fonti e la memoria non mi ingannano, era il democristiano
Misasi), d’altro canto, si scoprirono abbastanza impreparati a fronteggiare
quella protesta rumorosa e convinta.
Il
terzo anno, nella Ragioneria, così come, credo, in tutti gli
istituti superiori, è un anno cruciale. Intanto di solito si cambia di corso
(io infatti fui trasferito dal corso F al corso D). In secondo luogo si
studiano delle materie del tutto nuove.
Così
fu anche per me in quell'ottobre del 1970.
I miei
nuovi professori erano assai diversi tra loro. Intanto c'erano quelli delle
materie così dette di indirizzo: Ragioneria e Tecnica; oggi, nella moderna
ragioneria le due materie sono state unificate sotto il nome di Economia
Aziendale, ma all'epoca, come dicevo, vi erano due materie e due insegnanti. Il
professore di Ragioneria era un uomo tutto d'un pezzo. Si chiamava Murru.
Quando entrava in classe noi ci levavamo tutti in piedi, in segno di saluto e
di rispetto (ma lo facevamo per tutti i docenti indistintamente). Col braccio
destro levato in aria e la mano tesa ci ordinava di sedere senza pronunciare
parola. Ma i suoi occhi chiari e freddi scrutavano attenti tutta la
classe; quello sguardo era eloquente più di qualunque parola, così come quel
saluto solenne e ormai fuori moda: se non parlo io che sono il capo,
sembrava dire il bellicoso professore di ragioneria, perché dovreste farlo voi,
che siete dei poveri studenti, ancora senza arte né parte ( e chissà se mai ce
l'avrete con quei cappellacci lunghi e
con quelle minigonne).
Si
lavorava in silenzio e sodo. Io mi ero rassegnato a occupare il primo
banco (sempre per via della storia che i piccoletti dovevano stare avanti).
Da
lui, oltre al saluto caratteristico ricordo altre due cose: la prima è che
ripeteva spesso che i sindacati, soprattutto quelli di fede socialista,
erano la rovina dell'Italia
(narrava, a metà tra il serio ed il faceto, che i sindacalisti erano
dappertutto e che se uno di noi, un domani, rientrando a casa, avesse scovato
nell'armadio o sotto il letto un uomo, non ci sarebbe stato alcun bisogno di
chiedergli i documenti: si sarebbe trattato di un sindacalista di fede
socialista); la seconda era la tecnica che aveva per ricordare gli articoli del
codice civile (questa tecnica mi tornò poi utile anche all'università per
memorizzare i quattro codici); un giorno che ci spiegava il contratto di
società, citando l'art. 2247 c.c., disse che ricordava quel numero facilmente,
essendo nato nel 1922 ed essendosi poi sposato nel 1947; e faceva queste associazioni
per tutti o quasi gli articoli del codice civile. Della sua materia non ricordo
un beato picchio. Non mi piaceva (forse perché non mi piaceva lui; o magari,
viceversa, non mi piaceva lui, perché mi era antipatica la sua materia).
Era un
uomo freddo e distante; sicuramente preparato (si intuiva che nella sua materia
non era uno sprovveduto), non metteva però alcuna emozione nel trasmettere la sua
scienza. Quando anni dopo, sono divenuto un insegnante, ho messo l'emozione e
la passione al pari con la preparazione e la conoscenza; ma io ho sempre amato
le materie che ho insegnato.
E'
vero anche che i tempi sono cambiati. Oggi i giovani non accetterebbero quella
severità e quella distanza glaciale che ci separava dai nostri
professori!
Io
pendevo dalle labbra dei miei professori perché volevo imparare da tutti e di
tutto! Ed ero come una spugna, desideroso di apprendere!
Oggi i
giovani hanno a portata di click, tramite il PC o il Tablet, o meglio ancora l’
I-phone e il cellulare, tutto lo scibile possibile e immaginabile in qualsiasi
campo della scienza e di ogni altro campo della vita!
Altro
che giornaletti e fumetti! Altro che sognare "Le Ore!" Adesso bastano
tre lettere sulla barra di Google e tutto il bello e il brutto della vita ti si
spalanca davanti agli occhi! Peccato che questi giovani, troppo spesso,
facciano un uso distorto e superficiale di questa portentosa invenzione
chiamata Internet; di questa rete infinita di autostrade e sentieri, di valli e
praterie che si chiama WEB!
Io
ammiro davvero l'ingegno umano! Ma ripeto ancora: meno male che gli altri
uomini non sono come me! Altrimenti altro che World Wide Web! Noi saremmo
ancora nelle caverne, arrostendo il frutto della caccia e nelle interminabili
sere d'estate, siederemmo ancora attorno al fuoco, ad ascoltare dai poeti
erranti, le vicende antiche delle nostre genti, tramandate oralmente di padre
in figlio, da maestro a discente, da poeta ad allievo! Adorando la luna nelle
notti di plenilunio.
Del
professore di Tecnica non ricordo bene il cognome. Ricordo che la
moglie era un'insegnante e che il fratello era medico sociale del Cagliari
Calcio che di lì a poco avrebbe vinto lo scudetto del massimo campionato di
calcio, grazie alle reti eccezionali del grande Gigi Riva.
Aveva
una barca, ormeggiata in inverno a Marina Piccola (dove ormeggiano le
barche da diporto dei cagliaritani facoltosi e non solo), e in estate
ormeggiata in giro per il Mediterraneo. Faceva il commercialista e
l'assicuratore (più il secondo che il primo, ad onor del vero). L'assicuratore
marinaio aveva mangiato la foglia e doveva essersi detto nelle sue riflessioni,
tra una polizza assicurativa e una manovra di trinchetto: a questi giovani qui
non gli va di fare un beato cacchio; vogliono la rivoluzione, il sei politico,
la promozione garantita; fanno gli scioperi, vogliono le assemblee e la pari
dignità studenti-professori! Ebbene, accontentiamoli! In un discorso alquanto
serio ci aveva quindi detto: se volete lavorare, io son qua! Usatemi come si
usa uno strumento e farò ciò che volete!
Detto
e fatto! A noi ragazzi non ci andava di far niente (io men che meno nella sua
materia)! Alle ragazze sentir parlare di strumento doveva aver fatto venire in
mente delle altre fantasie, dato che il professore si presentava più alla mano
rispetto a quello di ragioneria. E comunque si associarono a noi maschi per non
far niente.
Ricordo
anche degli altri professori. Naturalmente quello di diritto e di economia,
materie che amavo e che amo ancora, come ho già avuto modo di dire! Anche se
non erano le mie preferite! Le materie che mi appassionavano maggiormente erano
invece l'Italiano e la Storia. Le ho sempre apprezzate! Sicuramente anche per
merito delle professoresse e dei professori che hanno avuto la pazienza di
decifrare la mia quasi impossibile grafia, nei lunghi temi in cui sfogavo la
mia verve di imberbe scrittore! E la storia? come si può non amare la storia?
Come ci si può annoiare a leggere quei libri dove vengono narrate le gesta dei
nostri avi? Dove ci sono scritti i segreti e le spiegazioni di ciò che fummo e
le anticipazioni di ciò che saremo?
La mia
professoressa del triennio si chiamava Annamaria Chessa.
Nonostante
ci desse del lei (ma tutti i docenti davano del lei agli studenti nella nostra
scuola) e nonostante la sua cattedra fosse distante e sopraelevata su di
una imponente pedana, io la sentivo vicina; emanava una grande umanità e
una notevole empatia la legava a noi studenti. Ha cercato di insegnarmi ad
esercitare uno spirito critico e un’ intelligenza libera da pregiudizi; si
preoccupava, oltre che dell'insegnamento, anche della formazione di noi
giovani, trasmettendoci il senso del dovere anche con il suo esempio. Io
credo che un buon insegnante debba prima di tutto dare il buon esempio:
un cittadino si forma con l'esempio di giustizia, di lavoro, di rettitudine, di
onestà, di puntualità, di disponibilità nel servizio e nella preparazione
continua e ininterrotta. Il buon esempio vale più di mille parole! E lei, in
questo, fu esemplare per davvero!
Mi
sono ispirato anche a lei nei primi anni del mio insegnamento (anche se gli
studenti mi pregavano di dargli del tu e io, dopo poco tempo, ho preso a
chiamarli perfino con il nome di battesimo!).
Non si
lavorò comunque molto in quei primi mesi dell'anno scolastico 1970-1971. Lo
sciopero era sempre nell'aria e noi rivendicavamo il diritto di riunirci e di
discutere dei problemi del mondo e non soltanto di scuola e di argomenti legati
al programma.
Cominciai
in quell'anno a scioperare con maggiore convinzione anche io. Nella mia scuola vi era un gruppo di
organizzatori entusiasti e capaci; erano tutti ragazzi di quarta e di quinta; qualcuno
era impegnato anche politicamente; molti erano semplicemente del movimento
studentesco, quello non politicizzato, che si occupava soltanto dei temi della
scuola, rivendicando diritti allora quasi impronunciabili: assemblee di classe,
assemblee di istituto, rappresentanza nelle istituzioni, diritto a conoscere i
voti, diritto di interagire e discutere alla pari con i docenti; diritto di
contestare e di ribellarci; diritti, solo diritti e sempre diritti. Gli adulti
furono molto pazienti con noi. Alcuni, anche fra i politici, erano perfino
impauriti. Tirava una brutta aria e certi studenti sembravano non avere alcuna
voglia di scherzare. Altri uomini politici erano semplicemente dei dritti:
gente che aveva studiato prima e più di noi e che sapeva che se ci avessero
affrontato di petto, rischiavano il tracollo; presi così, invece, di fianco,
forse ci saremmo stancati prima noi! La ribellione sembrava comunque epocale!
Secondo me era il prosieguo della rivoluzione dei Figli dei Fiori! Insomma
avevamo scoperto che il mondo poteva essere nostro e volevamo prendercelo,
tutto e subito! Chi erano quei matusa grigi e senza fantasia per impedire a noi
giovani di essere noi stessi? Come potevano impedirci di vivere le nostre
esperienze? E perché soltanto i ricchi potevano andare a scuola? La cultura non
era forse di tutti? E il potere non doveva essere del popolo, come insegna la
parola democrazia? A questi cori confusi ed indistinti, ma forti e mirati, si
aggiungevano quelli delle femministe: sesso libero; no al maschilismo; il sesso
ce lo vogliamo gestire da noi; abbasso i padri e i mariti padroni! A
morte il paternalismo! Lavoro per tutti! Pillola, aborto e divorzio garantiti!
Vogliamo la parità coi maschi! E così via gridando, manifestando e protestando!
Arrivammo
così a dicembre. La resa dei conti dopo le schermaglie dell' ennesimo autunno
caldo.
Si
fronteggiavano due Italie: una vecchia, rivolta al passato, appoggiata dalla
Chiesa e dalla classe politica democristiana e liberale; l'altra, proiettata
verso il futuro, rivolta in avanti, appoggiata dai comunisti, dai socialisti e
dai radicali di Marco Pannella.
E chi
può dire cosa sia meglio nel cammino dell'uomo? Non è che a forza di andare
avanti finiremo col cadere in un burrone senza fondo? Cosa c'è dietro dell'angolo
di questo infinito progresso, di questa ricerca senza fine, di questo
spasmodico ritmo che travolge il passato ed è incentrato sul futuro, senza se e
senza ma?
A
gennaio, dopo le vacanze di Natale, si rientrava a scuola e si riprendeva a
frequentare regolarmente.
Succedeva
sempre e quell'anno 1971 non fece eccezione. Anche se occorre sottolineare che
nella scuola c'era fermento anche tra i docenti, che rivendicavano degli
aumenti stipendiali che dei governi fragili non erano riusciti a garantire (ricordo,
oltre ai monocolore democristiani, i più frequenti quadripartiti con il PSI di Nenni
e Di Martino che poi diverrà solo di Bettino Craxi, il PRI di Ugo La
Malfa e di Giovanni Spadolini e il PLI di Valerio Zanone, che divennero più
tardi governi di pentapartito, con l'aggiunta del Partito socialdemocratico,
sino ai primi anni novanta, quando le inchieste giudiziarie di Tangentopoli
spazzeranno via tutta quella classe politica) .
Sia
detto per chiarezza, anche se per inciso, che dal ciclone di tangentopoli
sembrò salvarsi soltanto il PCI; qualcuno pensò che il motivo stesse nel fatto
che i giudici della procura di Milano e di quelle che la imitarono
nell'inquisire i politici corrotti, fossero degli uomini di sinistra; ma il
motivo è un altro: i comunisti, a livello nazionale, non riuscirono mai ad
entrare e diedero solo degli appoggi esterni nei momenti topici della vita del
Paese; il povero Aldo Moro pagò con la vita il tentativo di far sedere i
comunisti ai posti di comando, nei palazzi del potere nazionale; povero Aldo
Moro, chissà se voleva farli entrare per dimostrare che anche i comunisti erano
corruttibili come e più degli altri politici (Enrico Berlinguer a parte), come
poi dimostreranno nelle sedi del potere regionale e, più tardi, come PD anche
alla guida dei governi nazionali.
In
quei primi mesi del 1971, attraverso i giornali, la radio e la
televisione apprendiamo dell'esistenza dei Tupamaros uruguaiani e degli
Halcones messicani; Tito si reca in Vaticano da Paolo VI (primo leader
comunista a visitare un papa cattolico); a proposito di comunisti, quelli
cinesi di Maotzetung e Ciuenlai aprono al dialogo con gli USA con il
pretesto del Ping-Pong (disciplina in cui i Cinesi sono bravissimi); si parla
moltissimo in Italia anche di un colpo
di stato organizzato dalla destra, su imitazione di quello avvenuto in
Grecia nello stesso anno, per portare i militari al governo.
Sembra
che l'anima del fallito golpe sia stato il principe Junio Valerio Borghese, un
pluridecorato eroe, militare e militarista. Viene trovata anche la lista dei
500: politici, imprenditori, militari e semplici cittadini (tra cui figurano
nomi che vediamo ancora adesso in TV: Berlusconi, Cicchito, Costanzo); sembra
che questa lista sia legata a un certo Licio Gelli, grande maestro della
massoneria, anticomunista, poeta e grande organizzatore. Si sente inoltre
parlare per la prima volta di Gladio, un'organizzazione, anch'essa segreta, come
la P2 di Licio Gelli, che sottotraccia deve monitorare la politica italiana,
pronta ad intervenire nel caso i comunisti, con le buone (attraverso normali
elezioni) o con le cattive ( Lotta Continua, Potere Operaio, le Brigate Rosse )
assumano il potere. Insomma, si vive in un gran bailamme di notizie non
confermate, di sospetti, di intrighi e di misteri.
Potevo
io, coi miei poveri diciassette anni, neppure compiuti, riuscire a dipanare quelle matasse aggrovigliate di
complotti, di intrecci politici, di associazioni segrete, di poteri occulti,
quando in realtà non avevo neppure presenti e chiari i poteri palesi e
istituzionali (peraltro fragili e perfino poco autorevoli e scarsamente indipendenti
in un mondo che sembrava dominato alla grande dal gigante USA)?
Infatti
non li capivo. Protestavo, come tanti giovani di allora, contro la corruzione,
lo strapotere democristiano, l'imperialismo americano, l'arroganza dei ricchi,
le scarse opportunità offerte ai figli dei proletari, lo sfruttamento degli
operai, la scarsa libertà, il perbenismo interessato (come cantava il grande
Francesco Guccini), la voglia e il desiderio di un mondo diverso, con più
uguaglianza, con una più equa distribuzione della ricchezza, con più lavoro e
più benessere per tutti. Protestavo perché intuivo, più che capire, che era il
momento di far sentire la nostra voce, la voce dei deboli, di coloro che erano
stati zitti per lunghi anni, forse per decenni o addirittura per secoli!
Ma il
1968 ( e gli anni di riverbero e prosecuzione) non sarà stato il prosieguo dei
moti del 1848? Ci sarà un filo comune che lega le ribellioni di ogni tempo
contro il potere costituito, contro ogni forma di oppressione, contro chi si
arroga il diritto di tenere per sé tutta la ricchezza che si produce, prima
nelle terre e nelle miniere, poi nelle industrie e nelle fabbriche?
Forse
la vita è soltanto un susseguirsi di sopraffazioni cui fanno seguito delle
illusioni, dei sogni, delle ribellioni, delle piccole, provvisorie conquiste; e
poi, inevitabile, subentra nuovamente la repressione che si riprende, con gli
interessi e la vendetta, quello che ha dovuto cedere obtorto collo!!!
Mi
sembra di averlo letto, forse nei libri di storia; o in qualche romanzo; o
forse nei giornali. O magari l'ho inventato io! Però mi sembra che sia proprio
così!
E a
pensarci bene, certi misteri e certi intrecci italiani non li ho capiti neppure
oggi che negli -anta ci sono da molti decenni!
A
giugno arrivò un'altra promozione diretta. Promosso alla quarta classe, diceva
la pagella! Potrà sembrare buffo ma leggendo quella pagella io mi chiesi se
sarei stato all'altezza di quella promozione! Sarei stato capace di organizzare
gli scioperi, di condurre dei dibattiti, di affrontare il preside e i
professori con il piglio che esercitavano quei fratelli maggiori che andavano
diplomandosi?
Dicono
che per maturare, ciascuno di noi debba percorrere i suoi sentieri; e dicono
anche che questi sentieri siano sempre costellati di errori, ingenuità e
fraintendimenti, frutto della nostra inesperienza, della nostra spavalderia,
del nostro carattere, più o meno forte, più o meno profondo, più o meno riflessivo;
frutto della nostra cifra intellettiva, ma anche di ciò che abbiamo vissuto,
del latte cha abbiamo succhiato, dell'aria che abbiamo respirato, della cultura
di cui siamo stati imbevuti sin dai nostri primi passi sulla terra. Frutti del
mistero chiamato uomo.
Io
amavo ascoltare la canzone "Un
fiume amaro", nella traduzione dal greco proposta dalla voce di Iva
Zanicchi. E mi crogiolavo così, in quella età incerta che chiamano adolescenza,
dove non si è ancora uomini e non si è più ragazzi. E si vorrebbe essere un
altra persona, da un'altra parte della terra, in un luogo ideale, quello dei
sogni che non si avverano mai, ma senza dei quali non possiamo vivere.
Tra i
brani stranieri preferivo "My sweet
Lord!" di George Harrison, e mi chiedevo chi fosse mai quel Dio
cantato dal più mistico dei Beatles; sicuramente era un Dio, pensavo io nella
mia ignoranza, diverso da quello dei papi del nepotismo rinascimentale, grandi
predicatori e voluttuosi razzolatori, un dio diverso da quello che risiedeva
nel Vaticano dei mille misteri e dei ricchi cardinali; delle chiese e delle
prediche così distanti da noi poveri giovani, in cerca di libertà e piacere a
basso e pronto consumo. Forse era un Dio permissivo e generoso, che riusciva a
parlare e a ispirare i musicisti del movimento rock; un dio giovane e moderno,
non un vecchio barbone semiaddormentato nei cieli che non riusciva a vedere le
storture e le ingiustizie del mondo; che non riusciva a fermare le sempiterne
guerre dell'uomo, le sue avidità, la sua prepotenza, la sua violenza.
Beata
presunzione della prima età! Come se i peccati dell'uomo non fossero un frutto
dell'uomo stesso, ma fossero da addebitare a un'entità esterna e
responsabile delle nefandezze umane!
Ma in
fondo la canzone che ascoltavo con maggiore coinvolgimento emotivo, in
assoluto, era "Samba pa ti" di Carlos Santana (un altro mistico che
cercava Dio). Con le sue note vibrava il mio stesso corpo al contatto con altri
corpi, nei balli che riuscivo a strappare nelle balere di provincia, dove la domenica
cercavo di dimenticare i miei enigmi esistenziali.
Al
compimento del ventunesimo anno, come ho già detto, mio fratello Pietro Marino, in aperto dissenso
con la strategia di espansione aziendale che nostro padre aveva perseguito per
anni, se n’era andato via di casa per
tentare, in solitario, la sua fortuna commerciale.
La sua
ribellione, che in realtà aveva serpeggiato sotto traccia sin da quando mio
padre lo aveva ritirato dalla scuola pubblica per avviarlo alla sua scuola di
orologiaio, era esplosa apertamente, per
una magica e strana coincidenza, proprio
nel 1968. In quell’anno infatti il mio fratello maggiore aveva compiuto
i 21 anni (che all’epoca segnavano per legge il compimento della maggiore età).
A parte quella coincidenza, mio fratello Marino al movimento rivoluzionario ’68
non sembrava attribuire troppa
importanza, se non per criticarlo e addirittura esecrarlo per i suoi eccessi .
La sua
ribellione non era infatti contro una società
che, spinta da quelle forze misteriose che l’uomo ha imparato a
etichettare come rivoluzioni e progresso, la sottopongono a continui e perenni
trasformazioni, ma bensì contro l’autoritarismo paternalistico di nostro padre.
Che poi, se vogliamo, a ben vedere, era un modo pragmatico e personale di fare il ‘ 68. Che altro non fu
quel movimento, se non una ribellione contro l’autoritarismo e il potere costituito a favore di una maggiore
libertà e di una più autentica democrazia?
Pur
tuttavia mio fratello a parole e nei fatti aborriva la protesta giovanile; denigrava
i capelloni, propugnava sonore legnate per gli studenti e i lavoratori
scansafatiche e per i sindacalisti che li appoggiavano nei continui e rumorosi
scioperi; rifuggiva dalle mode che tentavano e di fatto omologavano tutto e
tutti, quasi imponendo comportamenti consumistici di massa; odiava la sinistra
extraparlamentare e i comunisti
ortodossi allo stesso modo; detestava le femministe, per non parlare delle
droghe e di ogni altra forma di evasione
che andasse fuori dai binari tradizionali.
E non
di meno, gli slogan della sua lotta contro l’autorità paterna, erano stati
”Viviamo in un regime di libertà!” “Il sabato e la domenica li voglio
liberi!” “Il ventennio è finito da un pezzo!” e così via protestando.
Nell’estate
del ’71 mio fratello Marino aveva abbandonato il vecchio locale di
via Cagliari, dove io, in un recente
passato, gli avevo fatto compagnia e si
era trasferito in via Roma.
Il
cambio di negozio non giovò soltanto agli affari (che subirono un notevole
incremento) ma anche e soprattutto all’umore e alla salute di mio fratello che
parvero rifiorire da quelle lande di depressione e malessere in cui sembravano
essere scivolate dopo la sua grande ed eclatante rivolta contro i disegni
egemonici di mio padre.
I
clienti entravano ed uscivano in continuazione, soprattutto la sera. Mio
fratello vendeva con discrete capacità ed io lo affiancavo per vedere che
qualche mariuola dalle mani svelte, approfittando magari di un suo momento di
distrazione, facesse sparire qualche oggetto d’oro.
-”Stai
attento soprattutto se vedi qualche avvenente ragazza che mette in mostra le
tette!” – soleva ripetere mio fratello per darmi la carica.
Quando
vi era più di un cliente anche io ero autorizzato a servire al banco, sia per
la vendita di oggettistica minuta, sia
per sostituire un cinturino o altre facili operazioni.
Il
periodo più calmo era a fine mattinata. Il negozio chiudeva alle 13,00 ma alle
11,30 in giro non si vedeva molta gente. Anche a Samassi, come in tutti i paesi
a vocazione agricola della zona, il pranzo è rigorosamente previsto alle 12,00.
Mio
fratello ne approfittava per fare le riparazioni.
Si
accomodava di buona lena al moderno
banchetto da lavoro in legno, che aveva una serie
di cassetti laterali di diverso spessore, un ripiano centrale, con
rientranza a mezzaluna, illuminato da
una lampada alogena e con un reparto a scomparsa, sottostante, che conteneva l’attrezzeria mobile di uso
comune: l’apricassa, un paio di cacciaviti, le pinze a becchi tondi, la lente
d’ingrandimento, l’estrattore per vetri, lo stantuffo, la spazzola; le pinzette
finissime, gli oleatori, le boccette degli acidi, del grasso e dell’olio
stavano sul ripiano rigido oppure protetti nei cassetti, comunque sempre chiusi
dalle apposite protezioni. E naturalmente vi era tutto il necessario per le
sostituzioni e i ricambi di routine per gli orologi meccanici di allora:
corone, alberi e molle di carica; vetri
infrangibili; assortimento di assi per bilancieri di orologi; un vasto assortimento
di cinturini, sfere delle ore, dei minuti e dei secondi e una infinità di
ansette, viti, ingranaggi, rocchetti, perni e mollette a volte quasi invisibili
a occhio nudo.
Io lo
guardavo affascinato, come avevo fatto qualche anno prima al seguito di mio
padre. Era preciso e delicato esattamente come il suo maestro. Solo che al
contrario di lui, mio fratello amava chiacchierare durante il lavoro di
riparazione al banco (a parte in quei rari momenti topici in cui il lavoro
richiedeva un’applicazione particolare e massimo silenzio).
Se era di malumore mi parlava della sua infanzia
disgraziata, di quanto avrebbe voluto studiare invece di essere stato
brutalmente messo a bottega; degli errori di
mio padre che non era stato
capace di costituire una vera società familiare a causa del suo carattere
dispotico e poco comunicativo; dei suoi amici, tutti sfortunati e pieni di
problemi; e di donne.
In fatto di donne, mio fratello era un grande
esperto; si prodigava infatti in un vero profluvio di pillole di saggezza
sulla materia: a cominciare dal carattere delle donne e sulla loro psicologia
instabile e umorale; e sulle loro apparenti virtù di castità e ritrosia; sulla
inutilità di stabilire con loro relazioni stabili e sulla convenienza a farsi
delle avventure, senza scrupoli e senza rispetto. Aveva in generale poca stima
del sesso femminile; alcune categorie sociali erano da lui etichettate come
poco di buono, da evitare come la peste: erano le parrucchiere e le infermiere,
a suo dire, tutte ragazze di facili costumi, da non considerare per eventuale
relazione stabile, tutt’al più, se fossero state “bone”, da inforcare e via. Mi
raccomandava di non lasciar correre le numerose occasioni che, fortunato
com’ero, lui non si sarebbe certo fatto sfuggire, nel mondo corrotto e
libertino della scuola, dove le donne cercavano una cosa sola; e bisognava
dargliela! Lui sì che avrebbe provveduto alla grande! E guai se io mi fossi
tirato indietro.
Io
avrei preferito dei consigli più pratici, magari su come corteggiare una donna,
come conquistarla, su quale fosse stato l’approccio più corretto per entrare in
quel mondo femminile così ricco, per me, di attrattiva, di fascino e di
mistero; ma mio fratello era un fiume in piena e non sembrava attribuire alla
psicologia un ruolo rilevante; le donne, secondo lui, erano delle bambole da
conquistare, da trombare e da mollare.
Oggi
capisco che quelle sue contumelie erano il risultato di tutte le delusioni che
lui aveva avuto nei suoi rapporti con il gentil sesso.
Perché
queste delusioni gli fossero occorse non so spiegare nel dettagli, perché lui non
si confidava con nessuno sulle sue vicende private.
Posso
però supporre che il mio caro e sfortunato fratello sia in qualche modo rimasto
vittima della sindrome del bravo ragazzo di cui le donne sembrano essere, a
loro volta, vittime (qualcuno la chiama
la sindrome della crocerossina; non so però se i due paradigmi affettivi
coincidano davvero).
E’
noto comunque che le donne siano attratte più dalle simpatiche
canaglie che dai bravi ragazzi. Mio fratello era sicuramente un bravo ragazzo,
affidabile, con un’ottima posizione economica eppure con le donne non ebbe mai
fortuna.
Guardandomi
in giro ho visto spesso delle ragazze molto carine e pulite, accompagnarsi con
dei ceffi dall’aspetto poco raccomandabile. Mio padre, a tal proposito, ripeteva spesso che se fosse nato donna, sarebbe morto vergine, perché mai si sarebbe
fatto toccare da certi elementi maschili, neppure con una canna di venti metri!
Io
allora vedevo le donne come delle dee, da adorare e venerare; sicuramente da
rispettare e da amare, ma mai da considerare come una merce di consumo, da
pagare per delle prestazioni sessuali; e
neppure dei corpi di cui godere, per poi
scappare, in cerca di altro piacere, come sembravano suggerire le teorie di mio
fratello ma anche di tanti altri uomini di mentalità maschilista.
Eppure
questa attrattiva che i cattivi esercitavano sulle donne; questa loro
attitudine a legarsi sentimentalmente con dei caratteri arroganti, con degli
spavaldi, quando anche non perfino delinquenti e malvagi, per me rimane un mistero irrisolto e, forse,
irrisolvibile.
Può
darsi che sia soltanto un problema di sicurezza interiore. Ho avuto modo, in
periodi diversi della mia vita, di appurare che le donne sono attratte da un
carattere stabile, fermo e sicuro; magari per contrasto con il loro carattere,
in fondo volubile e, se non altro,
fisicamente più fragile. E a volte, ai loro occhi, un bravo ragazzo è
soltanto un carattere insicuro e fragile (e si sa che i simili si
respingono);mentre gli opposti si attraggono; ed ecco spiegata la loro
attrazione per i supermachos motorizzati, che vivono ai margini della legge e
che non hanno altre sicurezze nella vita che il loro ego smisurato e la loro
boria.
Eppure
i femminicidi che si susseguono oggi a ritmo impressionante, mostrano al
contrario una grande fragilità psicologica nei maschi e allo stesso tempo
sembrano dar ragione però a una certa attitudine all’autodistruzione ed ai guai
che le donne hanno sempre mostrato di avere, sin nella scelta dei loro uomini.
Così
passò anche quell’estate del 1971, tra grandi discorsi, inestricabili misteri e
canzonette facili che mio fratello metteva alla radio in sottofondo, quando non
ascoltava chiamate Roma 3131 o altri programmi radiofonici pseudo-culturali.
Tra le
canzoni che più ho amato, in quell’anno, oltre a quelle già menzionate nei
capitoli precedenti, mi piace ricordare “Ed io tra di voi” e “L’istrione” di
Charles Aznavour; “Donna felicità” dei Nuovi Angeli; “Pensieri e parole” del
grande Lucio Battisti (e di Mogol Giulio Rapetti).
Quando
tornammo a Cagliari, preludio all’inizio dell’anno scolastico, imparai da un
amico quattro accordi alla chitarra ( Do,
La minore, Re minore e Sol). Davvero ben poca cosa se si pensa che in
questo stesso anno i Led Zeppelin pubblicano “Stairway to Heaven”, David Bowie
“Ziggy Stardust” e i Rolling Stones “Brown Sugar”.
Ma io
li avrei conosciuti soltanto qualche anno più tardi. Quell’anno conobbi “Jimi
Hendrix” ed il suo meraviglioso “Electric Ladyland” grazie a uno scambio che
feci con un amico che nel darmi la cassetta di Hendrix in cambio di una che io
avevo di Orietta Berti (non ne ricordo il titolo, né come l’avessi avuta,
perché in realtà non l’avevo mai neppure ascoltata) mi disse di pensarci bene,
perché stavo facendo il peggiore affare della mia vita e che lui era disposto a
darmela senza niente in cambio, perché comunque lui ne avrebbe guadagnato
qualcosa già nel liberarsene.
Io
ascoltai per anni, in estasi, quelle meravigliose composizioni musicali, quella
magica chitarra, quella voce che sembrava arrivare da un altro mondo. Solo più
tardi scoprii che dietro quelle composizioni musicali, così come per quelle dei
Led Zeppelin, dei Rolling Stones, di David Bowie e di tanti altri artisti della
musica rock c’era davvero un altro mondo, fatto di esperienze vissute
attraverso il consumo di sostanze stupefacenti, dalle più leggere e forse
innocue, a quelle più pesanti e micidiali. Tanto ciò è vero che molti di questi
artisti sono morti per l’abuso di queste sostanza stupefacenti. Ma all’epoca io
ero davvero all’oscuro di queste esperienze,
che feci soltanto più tardi negli
anni, quando mi recai a Londra, in cerca
neppure io saprei dire di cosa. E anche di questo avrò modo di parlare in seguito al paziente ed
affezionato lettore, se vorrà continuarmi a seguire.
Io
però, all’epoca, non vedevo l’ora di
tornare a scuola. Lì, più che in casa mia, trovavo la mia dimensione ideale.
E poi
adesso mi aspettava la quarta. Stavo diventando grande, anche se non me ne
accorgevo.
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