Quando arrivò alla casa di via Giudicessa Adelasia
lei era già lì che aspettava. Aveva ripreso le sue eleganti sembianze
professionali, col suo mezzo tacco nero, il suo tailleur di taglio sartoriale color amaranto, il suo preferito. Il trucco sapiente dava ancor più luce ai suoi
occhi e alla sua pelle.
Si salutarono affettuosamente, come due vecchi
amici. Il commissario armeggiò pronto con le chiavi che gli avevano dato in
procura (sequestrate all’assistito dell’avvocato Levi, il presunto assassino
con il coltello in mano). Quando furono dentro casa l’avvocato provò le luci:
la corrente c’era ancora, anche se non serviva. L’appartamento era luminoso e
il sole illuminava ancora quella bella
giornata di maggio. Il commissario sollevò le tapparelle del salottino della
casa della vittima di quel brutale
assassinio, ancora avvolto nel mistero, ancora senza un colpevole vero; un volo
di fenicotteri, come una squadra di aerei, sfilava verso la zona degli stagni.
L’avvocato aprì la borsetta e consegnò la chiave al
commissario, che nel frattempo aveva staccato dalla parete il quadro che
copriva la cassaforte a muro.
Luisa gli stava di fianco e si sollevò sulla punta
dei piedi per vedere meglio l’interno della piccola cassaforte. Ma non c’era
niente. Il commissario passò la mano destra su entrambi i ripiani, per esserne
ancora più certo. La cassaforte era davvero vuota.
I due si guardarono. La più incredula sembrava però proprio Luisa.
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