È un film che fa riflettere, “Il
Vangelo secondo Maria” di Paolo Zucca (ispirato al romanzo omonimo di Barbara
Alberti).
Aiuta a riflettere, innanzitutto, sull’evoluzione
della condizione femminile. E viene da
chiedersi quanto di quel patriarcato millenario, evidenziato sin nei primi
quadri dalla pellicola, sia rimasto
incrostato nelle pieghe della società contemporanea, in un momento storico in
cui i femminicidi ci forniscono il termometro del disagio patriarcale con cui i
maschi odierni sembrano rifiutare il desiderio di un’affrancazione risolutiva,
manifestato dalle donne.
Sì, perché il film, a discapito
del titolo, è secondo me un film sulla condizione femminile nella società
arcaica mediterranea, che
inevitabilmente lo spettatore tenderà a proiettare ai giorni nostri.
È anche vero che la proposta
del film, evidente sin dal titolo, sembra fornire invece una diversa chiave di
lettura, indirizzando lo spettatore a una visione apocrifa della maternità della
madre di Gesù. Tuttavia a me pare prevalente l’interpretazione sociologica su
quella religiosa.
Per chi si reputi un cattolico,
come nel mio caso, è difficile, se non impossibile, accettare una proposta alternativa alla
visione canonica del mistero di Maria.
Eppure il cattolicesimo più
illuminato, sin da quando venne pubblicata la Buona Novella di Fabrizio De André,
e forse ancor prima con Pasolini e il suo “Vangelo secondo Matteo”, ha imparato
a confrontarsi con altri e diversi punti di vista.
Anche nel caso del film di Paolo
Zucca “Il Vangelo secondo Maria”, per un cattolico, praticante o meno che sia, non si tratta di volgere in dubbio dei dogmi
cristallizzati nel tempo, scolpiti nell’anima dei credenti, avvolti in un
mistero che costituisce il nucleo essenziale della fede, e come tale viene custodito
nei recessi insondabili dell’esistenza, e non certo nella logica raziocinante
del pensiero.
Sarebbe fuorviante e anche penalizzante,
per la stessa pellicola di Zucca, tentare un paragone tra il sacro e il
profano. Come nella scuola dei tempi che
furono si insegnava a non mischiare i ceci con le fave, così occorre fare,
oggi, tra le opere dell’uomo e quelle che all’uomo non appartengono.
L’opera d’arte va quindi valutata
con i criteri suoi propri. E l’opera di Zucca, in questo caso, appare credibile
e apprezzabile per più di una ragione.
Credibile e apprezzabile appare Benedetta
Porcaroli, che ci restituisce una Maria
intrisa di umanità e di amore, schiacciata in una condizione impossibile, ma
per niente rassegnata, neppure in quella sua maternità non richiesta e non
voluta.
Apprezzabile appare anche
Giuseppe, interpretato da un sicuro Alessandro Gassman, che introduce nel film,
in maniera credibile (e la cosa non era
di per sé scontata), quelle venature di esoterismo e gnosticismo che rimandano
alla tradizione dei vangeli apocrifi.
Anche Fortunato Cerlino, nella
parte del sacerdote, Lidia Vitale nella parte di Anna e Maurizio Lombardo,
nella parte di Erode appaiono convincenti nei rispettivi ruoli; perfino
Leonardo Capuano, il padre padrone della giovanetta Maria, una volta avulso il personaggio dal suo
contesto canonico, e calato quindi nella realtà che il regista ha inteso
rappresentare, rafforza i caratteri sociologici della pellicola, di cui si
diceva dianzi.
Personalmente ho trovato fuori
contesto l’angelo, impersonato dal pur bravo Giulio Branno, che avrei evitato di rappresentare in quel
modo così naïf
(magari lo avrei sostituito con una visione onirica); e anche la sfilata della
statua nel piazzale del Bastione di Saint Remy mi è parsa fuori luogo. Due
scivoloni che però, a parer mio, non tolgono niente all’importanza del film.
L’ambientazione, tutta sarda, compreso il cammeo delle donne e dei figuranti popolani, congiuntamente alle scelte linguistiche autoctone, hanno
contribuito a rafforzare una visione solida e originale.
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