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lunedì 27 maggio 2024

Il Vangelo secondo Maria

 


È un film che fa riflettere, “Il Vangelo secondo Maria” di Paolo Zucca (ispirato al romanzo omonimo di Barbara Alberti).

Aiuta a  riflettere, innanzitutto, sull’evoluzione della  condizione femminile. E viene da chiedersi quanto di quel patriarcato millenario, evidenziato sin nei primi quadri dalla pellicola,  sia rimasto incrostato nelle pieghe della società contemporanea, in un momento storico in cui i femminicidi ci forniscono il termometro del disagio patriarcale con cui i maschi odierni sembrano rifiutare il desiderio di un’affrancazione risolutiva, manifestato dalle donne.

Sì, perché il film, a discapito del titolo, è secondo me un film sulla condizione femminile nella società arcaica mediterranea,  che inevitabilmente lo spettatore tenderà a proiettare ai giorni nostri.

È anche vero che la proposta del film, evidente sin dal titolo, sembra fornire invece una diversa chiave di lettura, indirizzando lo spettatore a una visione apocrifa della maternità della madre di Gesù. Tuttavia a me pare prevalente l’interpretazione sociologica su quella religiosa.

Per chi si reputi un cattolico, come nel mio caso, è difficile, se non impossibile,  accettare una proposta alternativa alla visione canonica del mistero di Maria.

Eppure il cattolicesimo più illuminato, sin da quando venne pubblicata la Buona Novella di Fabrizio De André, e forse ancor prima con Pasolini e il suo “Vangelo secondo Matteo”, ha imparato a confrontarsi con altri e diversi punti di vista.

Anche nel caso del film di Paolo Zucca “Il Vangelo secondo Maria”, per un cattolico, praticante o meno che  sia,  non si tratta di volgere in dubbio dei dogmi cristallizzati nel tempo, scolpiti nell’anima dei credenti, avvolti in un mistero che costituisce il nucleo essenziale della fede, e come tale viene custodito nei recessi insondabili dell’esistenza, e non certo nella logica raziocinante del pensiero.

Sarebbe fuorviante e anche penalizzante, per la stessa pellicola di Zucca, tentare un paragone tra il sacro e il profano.  Come nella scuola dei tempi che furono si insegnava a non mischiare i ceci con le fave, così occorre fare, oggi, tra le opere dell’uomo e quelle che all’uomo non appartengono.

L’opera d’arte va quindi valutata con i criteri suoi propri. E l’opera di Zucca, in questo caso, appare credibile e apprezzabile per più di una ragione.

Credibile e apprezzabile appare Benedetta  Porcaroli, che ci restituisce una Maria intrisa di umanità e di amore, schiacciata in una condizione impossibile, ma per niente rassegnata, neppure in quella sua maternità non richiesta e non voluta.

Apprezzabile appare anche Giuseppe, interpretato da un sicuro Alessandro Gassman, che introduce nel film, in maniera  credibile (e la cosa non era di per sé scontata), quelle venature di esoterismo e gnosticismo che rimandano alla tradizione dei vangeli apocrifi.

Anche Fortunato Cerlino, nella parte del sacerdote, Lidia Vitale nella parte di Anna e Maurizio Lombardo, nella parte di Erode appaiono convincenti nei rispettivi ruoli; perfino Leonardo Capuano, il padre padrone della giovanetta  Maria, una volta avulso il personaggio dal suo contesto canonico, e calato quindi nella realtà che il regista ha inteso rappresentare, rafforza i caratteri sociologici della pellicola, di cui si diceva dianzi.

Personalmente ho trovato fuori contesto l’angelo, impersonato dal pur bravo Giulio Branno,  che avrei evitato di rappresentare in quel modo così naïf (magari lo avrei sostituito con una visione onirica); e anche la sfilata della statua nel piazzale del Bastione di Saint Remy mi è parsa fuori luogo. Due scivoloni che però, a parer mio, non tolgono niente all’importanza del film.

L’ambientazione, tutta  sarda, compreso il cammeo delle donne  e dei figuranti popolani, congiuntamente alle  scelte linguistiche autoctone, hanno contribuito a rafforzare una visione solida e originale.

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